Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 22 Del 9 - 6 - 2008 |
Storie di sogni e di oblii |
Due romanzi per capire meglio |
Daniele Barbieri e Gian Maria Tosatti |
Una delle più resistenti leggende (paesane e metropolitane) parla di un’organizzazione mondiale per rapire i bambini che fa capo agli “zingari”, ai nomadi. Se poi 998 casi che arrivano alla cronaca smentiscono, un caso resta dubbio e solo un altro potrebbe essere un rapimento …. comunque la forza del pregiudizio fa sì che la memoria cancelli i 998 e conservi gli altri due.
Se invece che alle “voci” ci si affidasse ai documenti storici non si faticherebbe molto a scoprire che in vari luoghi e in varie epoche accadde esattamente il contrario: i bravi cittadini sedentari (o le loro rappresentanze istituzionali) sottrassero – spesso accampando quelle buone intenzioni che, come si sa, lastricano l’inferno – i figli dei cattivi nomadi per affidarli a famiglie o a istituzioni che erano più carcerarie che filantropiche. Un vicenda simile riguarda anche la Svizzera. Nel 1926 una società filantropica ottenne di occuparsi degli Jenische, una popolazione che come origini ha ben poco a che fare con rom o sinti ma che adottò il loro stile di vita nomade. Così in Svizzera “i figli della strada” vennero tolti ai genitori, rinchiusi negli istituti o affidati a famiglie contadine. I cognomi vennero cambiati, si disse loro che i genitori erano morti, molte ragazze furono anche sterilizzate. Come ricorda Mirella Karpati nella introduzione a Steinzeit (1995, Guaraldi-Aiep) di Mariella Mehr – una delle vittime di questa “sedentarizzazione” - nel 1950 la Svizzera si fece gran vanto di aver «beneficiato» così 500 bambini «su una popolazione di circa 20 mila persone». Nel 1973 si chiuse definitivamente questa pagina buia, ma solo nel 1986 «Alfons Egli, presidente della confederazione elvetica, chiese scusa pubblicamente». La tragedia degli Jenische in Svizzera costituisce una delle due chiavi di lettura, appunto quella storica, di uno straordinario libro, sempre di Mariella Mehr che finalmente (cioè dopo 11 anni) è tradotto in italiano da Effigie che ha in catalogo anche Notizie dall’esilio, antologia poetica della Mehr. Nonostante l’autrice sia assai nota e da anni viva in Toscana, a un anno dall’uscita ben poche sono le recensioni. Eppure rari sono i libri capaci di tale forza e di una scrittura adeguata alla sfida che propongono a chi legge. Questa è la seconda chiave di lettura possibile: si può ignorare tutto degli Jenische e buttarsi nel gorgo di un libro che ti prende al laccio fin dalla prima riga. Questa: «Non ha nome, Labambina. Viene chiamata Labambina». Una protagonista senza nome dunque. Ma anche senza voce: non parla. Senza stupore e senza sentimenti; in Paese spiegano: «è caduta dal carro del diavolo». Senza casa: ha un tetto sulle spalle ma resta «l’intrusa». Senza senso perché il mondo non l’accetta e può essere presa a cinghiate ignorandone i perché. Senza sogni o tregua nel vivere: «perché nel suo mondo sognare significava dimenticare per un istante che bisognava guardarsi alle spalle, sempre e ovunque perché sempre e ovunque c’è un pericolo che ci minaccia». E ancora senza tempo, senza regali (neppure una bambola di pezza), senza pietà, senza luce (per nessuna ragione lei può accenderla)… Senza storia. E’ uno di quei libri che “fa male” ma che allo stesso tempo è difficile interrompere. Un mondo disperato. Ci sono «alberi che accarezzano» e c’è una persona che sembra/è diversa dall’inferno in cui vive: dunque si accende qualche luce di speranza ma è solo per poco. Perché il villaggio si svela un incubo non solo per «Labambina» ma per tutti i suoi abitanti, soprattutto le donne, vittime di una ignoranza che si fa scudo d’un dio crudele. Chi vuole scrivere non deve solo trovare – o inventare – storie ma anche, a volte, forzare i linguaggi perché possa essere detto ciò che prima era indicibile o che era stato censurato all’origine (cioè nella testa delle persone). Questo è uno dei rarissimi libri che lo sa fare. Se faticate a trovarlo (è nota la difficoltà dei piccoli editori nel trovare canali) ordinatelo a effigiedizioni@effigie.com. Vale aggiungere che a libro chiuso si avverte la sensazione – assai curiosa – che prestare il libro, consigliarlo non basti; si vorrebbe avere magicamente in tasca 1600 euro in più… per regalarlo subito a 100 amiche e amici; o magari ad alcuni fra gli sciagurati, anche giornalisti, che attribuiscono ai nomadi tutti i mali del mondo. (d.b.) «Sarà che possiamo nasconderlo anche tutto il circo che ci hai dato, ma alla fine cosa ne facciamo di averlo messo in salvo?»
Ci pensai, poi gli chiesi: «Ma tu Nasir, tu sei di Belgrado, no? Sotto i bombardamenti non avete messo in salvo delle cose?» - Abbiamo messo in salvo un po’ di tutto, ma quello che ricordo è il carretto di mio nonno. - E a cosa vi è servito di averlo messo in salvo? -Be’, ma quello ci è servito per passare la frontiera, da Sombor a Vukovar, altrimenti non è che si riusciva, con mia nonna che non poteva camminare. - Igen, ecco! Così è uguale per il circo nostro. Che quando noi avremo salvato lui, potrebbe anche succedere che lui salvi noi, un po’ come quel carro, anche se per arrivare alle frontiere forse ci mancano le ruote…» E’ così che scherza Branko Hrabal per trovare un senso ad un tentativo funambolico di esistenza che lui, protagonista del romanzo di Milena Magnani Il circo capovolto, cerca di portare avanti in una confusione che oscilla tra un senso di torpido smarrimento e una certezza tanto sacrale da essere derisa. Quello della scrittrice è un racconto misterioso che della favola ha tutti i connotati. E, infatti, non si cura di andare troppo a fondo nelle descrizioni, di volersi naturalistico per entrare nel fango della condizione dei Rom, accampati alle periferie dell’esistenza. Le basta citarle, le bastano degli accenni, che poi la storia che va a raccontare non è un reportage e mira ad un obiettivo più alto, quello della nostalgia. Branko Hrabal arriva una notte in un campo tirato su tra lamiere e copertoni in un luogo imprecisato. Il suo cancello sancisce l’uscita dal mondo e dalle sue regole per entrare in un sistema diverso, in una dimensione di sospensione senza ritorno, in cui si può essere ombre in vita. Ma anche nel campo ci sono regole, contrasti e passioni. Tutto più arcaico, primitivo forse, tutto alla portata della nudità cui chi vi entra si riduce. «Sempre l’ho dentito chiamare “campo di baracche”, ma in realtà è soltanto un grumo. Un coagulo che il destino deve avere scartato dal flusso inarrestabile della corrente del benessere». Così lo descrive il protagonista il suo campo, parole buone per tutti i luoghi che si somigliano, dove si fa comunità con persone venute da posti lontanissimi e che non anno altri punti di contatto se non quella controversa appartenenza che è un focolaio continuo di faide interne. Per lui, l’hungarez, venuto con un circo chiuso in dieci scatoloni a far brillare gli occhi di tutti i bambini venditori di rose, quel luogo è al contempo il capolinea e la ripartenza. Il capolinea della sua vita - visto che il romanzo inizia con la sua uccisione e si scrive a ritroso - e la ripartenza di una illusione, del «sogno del circo» che brilla negli occhi di tutti quelli che sono saliti un giorno sulla carovana. Attraverso il suo racconto, narrato all’ombra di un destino scritto, Branko illuminerà con una storia le vite dei discendenti di una stirpe di maghi, di acrobati e di giocolieri, spiaggiata dopo una deriva immemore alla foce della propria storia. Ma anche da lì una nuova carovana può partire, allontanarsi, fare la strada a ritroso fino a Birkenau, dove Nap apò, il nonno del protagonista, il grande sultano del Kek Cirkusz è stato sterminato assieme a tutta la famiglia. Di Branko resta un cumulo di terra. «E chissà se, guardandolo, qualcuno capisce come sono esistito. Una vita, in fondo a perdere. Un tentativo di me contro anonime periferie». Ma i pigri bambini che all’inizio del romanzo abbiamo trovato arresi al sole come naufraghi, alla fine sono acrobati, decisi a riscattare l’identità del loro sangue dall’ultima maledizione quella che da bambino fa piangere il piccolo Branko di fronte all’ignavia della sua gente. «Piango, e per dispetto penso che odio sia mio padre sia gli zingari, che gli zingari sono tutti idioti e balordi e che insieme a mio padre dovrebbero sprofondare per sempre nella Duna. Ma quand’era? E quanto ero distante a quel tempo da me stesso? Sono solo io così scollegato? Siamo tutti così scollegati?» (g.m.t.) In libreria: Mariella Mehr, Labambina, Effigie ed., Milano, pp 156, 16 euro In libreria: Milena Magnani, Il circo capovolto, Feltrinelli ed., Milano, pp 164, 12,50 euro |