Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 23 Del 16 - 6 - 2008 |
Per farla finita con la politica degli eventi |
Un dialogo con Giulia Rodano |
Attilio Scarpellini |
«Gli eventi, per carità, sono importanti, ma lo sono soprattutto simbolicamente. Quello che, non da oggi, ci sforziamo di dimostrare è che in un territorio come il nostro bisogna anzitutto creare una sensibilità alla cultura, formare un pubblico, gettare dei semi». Giulia Rodano è nota perché le cose non le manda a dire e perché, al momento buono non rifiuta mai lo scontro. In un mondo di politici che si credono direttori artistici, ad esempio, l’assessore alla cultura, allo sport e allo spettacolo della Regione Lazio ha sempre rivendicato una separazione dei ruoli decisamente classica: la politica mette i paletti, elabora gli indirizzi, seleziona i soggetti, ma sta a questi ultimi decidere la programmazione e provarne il valore sul campo. Con le Officine culturali regionali, un progetto “disseminato”, dove ogni singola officine artistica adotta un Comune (e viceversa) della Regione (Roma esclusa), voleva gettare le fondamenta di una fruizione culturale non solo diffusa ma anche senza confini di genere e di linguaggi. E i numeri del primo biennio di attività – 2006-2007 - come dice lei stessa, “sono incoraggianti”: 477 spettacoli/performance, cui hanno assistito circa 100.000 spettatori, 600 operatori culturali e artisti coinvolti, 54 laboratori e corsi e 45 workshop/seminari cui hanno partecipato 4700 persone. Un’offerta che si ripropone con un nuovo bando, dove oltre ai dieci centri culturali sono previsti due cantieri di teatro sociale aperti anche alla città di Roma (“non un’iniziativa di sostegno sociale – ci tiene a precisare la Rodano – ma di produzione artistica a tutti gli effetti”) e che si ricollega alle altre due iniziative-pilota con cui la Regione scommette sulla capacità della scena contemporanea di parlare al territorio: i sentieri d’ascolto dell’Atcl e la collaborazione con l’Eti nell’ambito del progetto “Teatri nella Rete”.
Assessore Rodano, partiamo dalle Officine culturali che, assieme a “Teatri nella Rete”, rappresentano uno dei punti più qualificanti e più originali dell'offerta culturale della Regione Lazio. I numeri sono indubbiamente incoraggianti. Ma al di là dei numeri, giunti all'inizio del secondo biennio di attività, come giudica l'impatto qualitativo dell'iniziativa su un territorio che, escludendo Roma, è sempre apparso culturalmente povero?
Noi siamo all’inizio del secondo biennio e abbiamo indetto un nuovo bando che è attualmente in corso. La cosa importante è che abbiamo reso la modalità delle Officine una modalità permanente perché è inserita nel documento di impostazione della politica sullo spettacolo dal vivo approvato dal Consiglio regionale. Questo perché pensiamo che in un territorio come il Lazio, più che una politica di eventi, sia necessaria un’azione di formazione del pubblico e di promozione di una abitudine all’attività culturale. Bisogna che l’attività culturale torni ad essere considerata una dimensione dell’esistenza e per questo è necessaria un’offerta che si radichi nel territorio. Certo, non tutte le Officine sono uguali o hanno prodotto lo stesso impatto sul pubblico: potrei citare esempi che ritengo particolarmente felici – ad esempio Aprilia, Isola Liri o anche il lavoro nella Bassa Sabina - ma si tratta di mie opinioni personali che non hanno niente a che vedere con quello che poi stabilirà la Commissione di valutazione. In generale il risultato vede una crescita di pubblico, di operatori e di consapevolezza delle amministrazioni. E’ questo insieme ad essere importante, perché determina una condizione di presenza permanente sul territorio della cultura in generale e dello spettacolo dal vivo in particolare. Anche ipotizzando che alcune Officine perdano il loro finanziamento, in quei comuni ha comunque preso piede una sensibilità allo spettacolo dal vivo che può essere canalizzata in altre iniziative, dar luogo ad altre produzioni anche senza il nostro sostegno. In questo caso le Officine hanno costituito uno start-up. L’altro risultato è che abbiamo creato nuovi spazi, abbiamo aperto teatri dove non ce ne erano: a Monte Romano, ad Aprilia, a Isola Liri.
Tra gli altri obiettivi di "inclusione" del progetto c'è quello di utilizzare il linguaggio della scena contemporanea per alimentare la creatività giovanile sul territorio. Alla luce di quella che è stata finora l’esperienza delle Officine, questi linguaggi, di origine spiccatamente metropolitana, si rivelano effettivamente più coinvolgenti e più adatti a superare il gap culturale rappresentato dal teatro come forma "alta"? La contemporaneità della danza e della performance può mettere radici nel territorio?
Vorrei precisare una cosa: noi sui linguaggi contemporanei lavoriamo da anni e con diversi strumenti, non ultimo quello costituito dalla collaborazione con l’Eti per “Teatri nella rete”: un progetto triennale di dissodamento del territorio che ci porta ad aprire nuovi spazi sia fisici che artistici, come ad esempio abbiamo fatto con la stagione a Ceccano, dove non c’era mai stata una stagione teatrale. Poi ci sono i sentieri d’ascolto realizzati con l’Atcl, incentrati soprattutto sulla scrittura teatrale contemporanea. Dal mio punto di vista è una semina: a volte va meglio, a volte peggio, dipende dalla qualità dei prodotti proposti da ogni centro culturale e anche dal rapporto che gli artisti riescono a stabilire con la zona in cui operano. Ma qualcosa cresce e l’esperienza che stiamo facendo sulla danza lo dimostra. La danza contemporanea è vittima di un circolo vizioso: ci sono pochi spazi, ci sono poche risorse, il pubblico la vede poco. Poi si dice: vedete, la danza contemporanea non va bene e si continua a non finanziarla. Con “Teatri nella rete” abbiamo cercato di rompere questo circolo vizioso che per altro è aggravato da un paradosso ulteriore: marginalizzata sui palcoscenici, la danza è invece una delle attività giovanili più diffuse, tutti danzano o quanto meno tutti ballano… Si tratta insomma di restituire una visibilità alle espressioni artistiche di quello che è uno dei linguaggi più sentiti e, trattandosi di un linguaggio non verbale, più universali delle nuove generazioni. E i primi risultati di questo disseppellimento della danza contemporanea mi sembrano francamente positivi. Certo, sono processi molecolari che non hanno ancora avuto tutto il tempo di svilupparsi… Il tempo, appunto. Lei ha sempre difeso gli attuali meccanismi di accesso al progetto, il bando e la biennalità, ritenendoli non solo i più trasparenti ma i più funzionali agli obiettivi delle Officine. Non le sembra che garantire una maggiore continuità ai gruppi e alla compagnie coinvolte possa rendere più efficace e più duraturo il lavoro formativo che svolgono nelle diverse comunità in cui sono impegnati? In alcune zone toccate dalle Officine, come Lei stessa riconosce, il teatro era una pratica quasi sconosciuta. Se due anni sono sufficienti a risvegliare un desiderio, forse non lo sono a inventare una tradizione...
La questione è molto complessa. Sì, sono convinta che il bando resti lo strumento più trasparente ma è anche, per così dire, il più inevitabile: quale altra possibilità abbiamo, in fondo? In un campo così delicato come quello della produzione artistica non si può correre il rischio di scambiare la promozione culturale con la programmazione, il governo con la direzione artistica col risultato, magari, di far passare le cose che piacciono all’assessore. Le Regioni non possiedono teatri e quindi non posso nominare direttori artistici, che sarebbe l’altra via ipotizzabile. I Teatri sono, giustamente, di ambito comunale: il teatro di Viterbo è diretto da Annesi, quello di Civitavecchia da Quartullo. Quello che posso cercare di fare, attraverso il circuito dell’Atcl, è offrire una programmazione. Insomma, o il bando o l’accordo con strutture pubbliche come l’Eti che ha come compito di istituto quello di promuovere il teatro sul territorio. D’altra parte, so benissimo che da parte dei gruppi e delle compagnie c’è una richiesta concertativa e non ne nego assolutamente l’importanza, soprattutto in questa fase. Ma una concertazione può essere portata avanti soprattutto sulla natura del bando, non sulla sua validità come strumento giuridico. Il bando delle Officine nasce da una consultazione con i territori e con i gruppi che lavorano sui territori. L’esigenza di creare una maggiore continuità la sentiamo anche noi, tanto è vero che adesso è uscito un bando per quindici iniziative regionali che abbiano almeno cinque anni di storia. Può essere necessario un intervento sulla produzione e non più soltanto sulla promozione culturale. La Regione, per la prima volta, ha riservato delle risorse, per quanto limitate (sono un po’ meno di trecentomila euro), per tentare un bando sperimentale per la produzione di spettacoli che uscirà nelle prossime settimane. Insomma, capisco l’obiezione sul fatto che il bando può non garantire a sufficienza la continuità delle iniziative artistiche, ma è anche vero che la continuità non può essere assicurata soltanto dalle risorse pubbliche, deve scaturire dal radicamento sul territorio del lavoro delle singole compagnie. Tutto questo, facendo astrazione dal problema che già ora abbiamo di fronte: il problema di un’altra continuità, per nulla scontata, che riguarda lo stanziamento di risorse da parte del nuovo governo. Per il momento non mi sembra che ci sia una grande attenzione alla cultura, finora anzi non si è parlato altro che di tagli. |