Michele Di Stefano durante la realizzazione di
Michele Di Stefano durante la realizzazione di "Fortezza"
Un'immagine del lavoro all'interno dell'acquario di Isola del Liri
Un'immagine del lavoro all'interno dell'acquario di Isola del Liri

Anno 1 Numero 23 Del 16 - 6 - 2008
No man is an island
Conoscenza dei percorsi artistici da parte degli operatori e dialogo nella progettazione sono le chiavi di un progetto vincente secondo Michele Di Stefano

Gian Maria Tosatti
 
Lavorare nelle periferie non vuol dire esportare solo spettacoli, prodotti di consumo culturale impacchettati e pronti da digerire o da rigettare, a seconda delle circostanze. Se l’intervento vuol partire da principi forti, si devono coinvolgere anche processi più impegnativi e complessi, in cui artisti differenti riescano a comunicare sulla base di una pratica di condivisione più aperta. Ed è più o meno quello che ha cercato di fare l’Eti in questa prima parte di progetto triennale coinvolgendo coreografi di fama internazionale come Virgilio Sieni o Michele Di Stefano non con i loro pregevoli spettacoli, ma ingaggiandoli per riprodurre nelle cittadine del Lazio quelle esperienze sperimentali che aprono e rendono permeabile al pubblico il concetto di opera d’arte. Così l’Accademia del gesto di Sieni e così anche Fortezza di MK, nata da un periodo di residenza a Isola del Liri. Le linee guida del lavoro erano quelle di coinvolgere il pubblico e gli artisti del luogo in una trama che estraesse le potenzialità nascoste di uno degli esoscheletri archeoindustriali di cui il basso Lazio è ricchissimo.
E’ un po’ così che lo racconta Di Stefano pensando alle due settimane di lavoro svolto nell’acquario incompiuto di Isola del Liri, una struttura mastodontica di cemento armato che avrebbe dovuto accogliere il più grande parco ittico d’Europa e che invece giace in semiabbandono da anni. «E’ stato un lusso» - afferma il coreografo - «lavorare in questo orizzonte. Poterlo visitare quotidianamente, interrogarlo a qualunque ora per sentirne tutte le possibilità».

Il lavoro si è svolto in un tempo determinato. «Due settimane per produrre la performance, che in realtà era il momento finale di un processo di approfondimento iniziato il primo giorno e svolto in due diversi luoghi: una sala prove effettiva, in cui concentrarsi per sviluppare certe suggestioni arrivate dallo spazio, e poi l’acquario dove riportare i risultati del lavoro e confrontarli per vedere se reggessero. Una condizione ideale di lavoro che permetteva di rimanere in un dialogo aperto e continuo con quella che era la fonte dell’ispirazione e anche l’obiettivo della nostra ricerca». Tra i molti spazi particolari del comune in provincia di Frosinone proposti dall’Eti Di Stefano non ha avuto dubbi: «La scelta è stata immediata, anche per via dei corridoi, dei collegamenti fra le vasche/sale che ci permettevano di continuare il nostro lavoro sulla frammentazione della scena e sulla costruzione di dinamiche coreografiche pure legate ai movimenti, alle traiettorie, alle apparizioni. Il risultato poi ci ha premiati, perché la risposta del pubblico è stata molto forte. Merito appunto dello spazio, che ha agito su di noi come catalizzatore, perché quando inizi a lavorare in un luogo del genere non puoi cercare di stare nella media, finisci per forza per andare verso il limite e nel caso di strutture come l’acquario si tratta di un limite doppio, quello che portava a sviscerarne il principio di decadenza e quello che conduceva a esaltarne il ricordo della potenza». E di fatto il lavoro ha dato al gruppo romano la possibilità di compiere un passo in più lungo un iter di sperimentazione che negli ultimi anni ha ragionato sempre per occasioni ulteriori più che per passaggi decisivi, superando il concetto di “spettacolo” come forma definitiva, giungendo ad una costante accumulazione di materiali successivi, di ipotesi progressive. E dunque a ben guardare forse è proprio questo il modo con cui meglio si può lavorare assieme ad Mk e sono queste le regole d’ingaggio in cui il gruppo può dare il  meglio di sé.

Così riflettendo su quali fossero le potenzialità di una iniziativa avente il doppio obiettivo di tirare fuori le migliori energie degli artisti per dare la scossa, l’impulso di defibrillatore, ad una provincia resa pigra dall’omologazione televisiva e dalla fatica del lavoro pendolare, si può notare come il progetto dell’Eti, culminato nelle giornate di sintesi del 30 maggio e 1 giugno a Tuscania e Isola del Liri «abbia permesso che emergessero materiali radicali. Nella giornata del primo giugno, infatti, sono state presentate opere che non concedevano niente ad un pubblico digiuno, lavori indubbiamente difficili, che non chiedevano un facile consenso. Ma questo clima di festa, di baccanale, che introduceva il pubblico in un luogo fatiscente all’interno del quale veniva liberata una grande energia, ha azzerato il livello della fruizione passiva da platea e ha introdotto le persone nel flusso stesso del lavoro, abbattendo le barriere del capire/non capire». Ed il meccanismo a ben vedere funziona anche inversamente, perché mettere gli artisti in un processo creativo significa impegnarli ben oltre la semplice replica di uno spettacolo fatto su mille altri palcoscenici sempre uguali. «E’ chiaro» - ci incalza Di Stefano - «per quel che riguarda gli artisti, abitare per un momento la periferia dell’impero culturale, permette di rimettersi a confronto con le proprie questioni radicali. Su di me ad esempio ha molto influito la presenza dell’acqua come elemento primario. In due settimane lavorare dentro a delle enormi vasche e dormire in una stanza affacciata su una cascata, sempre cullato dal rumore di fondo di un flusso continuo di acqua ha avuto un effetto verticale a livello interiore».

Un’occasione dunque. Per tutti, gli artisti, il pubblico «e anche per i due ragazzi di Isola del Liri che da qualche anno stanno conducendo una loro ricerca artistica e che abbiamo voluto coinvolgere come performers assieme a noi». E il quadro che ne risulta è dunque quello di un intervento che una volta tanto esce dalle dinamiche sclerotizzate, da mercato della frutta, in cui i teatri comprano spettacoli sulla base del campionario dei diversi repertori o peggio ancora sulla consistenza delle diverse rassegne stampa, ma cerca di legarsi alle persone e alle loro attuali progettualità e sensibilità. «Credo,» - continua il coreografo - «che tutto sia partito da una grande attenzione ai luoghi. Da lì è iniziata la ricerca di quegli artisti che avrebbero potuto esaltarne la ricettività e anche la comunicatività. L’Eti conosceva il nostro lavoro, ne abbiamo parlato e abbiamo iniziato a svilupparlo, non fermandoci ad una singola tappa, ma anche cercando di ipotizzarne una crescita nel tempo che potesse dargli una stabilità e una riconoscibilità sul territorio. Da lì in poi, nelle sedi istituzionali e poi in quelle tecniche, nella sala prove, a Isola del Liri, mentre lavoravamo avevamo la sensazione di essere capiti e assecondati dai nostri interlocutori in quello che andavamo a fare e dunque di star facendo qualcosa insieme». Un quadro niente affatto scontato nel mondo del teatro di oggi, che vuol essere premessa ideale per il successivo biennio che questa costola di Teatri nella Rete andrà ad affrontare.