Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 24 Del 23 - 6 - 2008 |
Saldi d’inizio stagione |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
Non c’è molto da dire, perché non c’è molto. La stagione è iniziata. La stagione è finita. Alle porte c’è quella dei festival estivi, che come ogni anno fioriscono tra giugno e luglio un po’ ovunque col loro carico di spettacoli e di suggestioni. Al tramonto c’è quella dei festival estivi, che fino a qualche anno fa era un appuntamento imprescindibile per tutti, pubblico in testa, e che ora è quasi invisibile. Insomma l’estate 2008 non ha i migliori auspici per questa espressione organizzativa che da sempre e in tutte le arti è stata sinonimo di innovazione, di sperimentazione, di rischio e di coraggio. I motivi sono tanti. Ce ne sono alcuni che costituiscono le cause e altri che a ben vedere sono assimilabili agli effetti. E come al solito i secondi sono i più appariscenti e rischiano così di essere confusi con i primi. E allora partiamo proprio da questi, da un elenco approssimativo, una incursione di sguardo. Partiamo dalle istituzioni che con un raro intuito riescono a sbagliare quasi ogni colpo e a riversare risorse lì dove non servono, e addirittura a inventare (come se fosse loro compito) festival come quello “nazional napoletano”, che piomba su una città come un’astronave aliena (e infatti l’anno scorso era attraccato nel porto con una nave da migliaia di posti e centinaia di migliaia di euro di noleggio). Ma a Roma si riesce a fare quasi di meglio, ossia a far uscire praticamente a luglio i risultati del bando dell’Estate Romana, senza ancora che siano state decise le cifre attribuite ai vincitori. Risultato: l’Estate Romana si farà a novembre, con buona pace dei meteorologi. Poi arriviamo alle associazioni territoriali responsabili di festival esistenti, prima tra tutte quella di Santarcangelo, che qualche anno fa finì nella bufera per aver inventato uno dei meno trasparenti e pasticciati «concorsi per vincere la direzione artistica». Allora se l’aggiudicò Olivier Bouin e sinceramente non immaginiamo sulla base di quali meriti progettuali. A conti fatti le sue due edizioni (in co-direzione con Paolo Ruffini) sono state il più colossale flop della storia di un festival che è stato per quasi trent’anni il più rappresentativo d’Italia e che l’anno scorso, nell’ultimo week-end (quello tradizionalmente più ricco e in cui non si trovava posto neanche in Piazza Ganganelli) contava sui suoi spalti non più di un paio di operatori e sparuti gruppi di spettatori balneari. Le teste dei due direttori sono cadute, una dopo l’altra, ed è giusto che una volta tanto in Italia accada. Quello che però non è chiaro è perché siano rimaste in piedi fino alla scadenza quelle dei veri responsabili di questa debacle, ossia del presidente Pozzi – oggi sostituito da Pascucci - e degli altri membri dell’associazione che con un concorsino fatto in casa degno della più torbida italietta hanno raso al suolo in una mossa l’eredità di trenta gloriosi anni. Tra tutti gli effetti c’è, però, quello forse più significativo, ossia la colpa di quei direttori artistici che, non avendo risorse, chiedono agli artisti di fare spettacolo gratis o a cifre irrisorie. Non si sta parlando di squali. Tra questi ci sono persone che chi scrive ha difeso e ancora difende per molti meriti e grande generosità. Tuttavia essi si rivelano miopi e talvolta incapaci di rendersi conto che un sistema che comporta lavoro - com’è quello dello spettacolo - può funzionare solo se si innesca un processo virtuoso di economia interna. A salvare il teatro non sarà il raddoppio o la moltiplicazione esponenziale del Fus (che tanto non arriverà mai). A salvarlo sarà la volontà di quelli che ad un certo punto inizieranno a pagare i cachet pieni e programmeranno cinque compagnie invece di venti, ma immetteranno risorse reali nel sistema permettendo alla macchina di riprendere a funzionare e a pompare benzina nel circuito. E poi di effetti fatali ce ne sono ancora tanti. Prima fra tutte la fioritura di festivalini fai-da-te, con direttori artistici d’occasione, che non fanno che aumentare la confusione e pasticciare ancor di più il profilo sfocato del teatro italiano, quello vero, quello che ha chances. E infine ci sono anche i Premi Olimpici del Teatro che non si capisce come possano ogni anno – appunto a inizio estate - tirare fuori le più improbabili terne di candidati possibili. Ci toccherà andare a rileggere l’elenco dei critici votanti per bandirli una volta per tutte dalla tribuna delle persone cui diamo ascolto. E speriamo anche che tutta la baracca chiuda prima di replicare (stavolta inconsapevolmente) il macabro siparietto di Corrado Guzzanti che alla candidatura di Amedeo Nazzari doveva rispondere perentoriamente: «Sarebbe perfetto, ma è morto. E’ m-o-r-t-o!» Per chiudere e finire questa penosa rassegna di amenità italiane che stanno alla base del crepuscolo festivaliero, conviene dunque passare dagli effetti alle cause, al motivo vero di questo inverno del nostro scontento che è molto più radicale. Esso consiste nel fatto che in Italia non c’è un teatro unito che si stringe attorno ai suoi appuntamenti e ai suoi artisti. Tra direttori e direttorini artistici, artisti e artistini, vige la regola dell’«ognuno per sé e dio per tutti» e del «si salvi chi può». Allora si confonde tutto. Santarcangelo si confonde con il festivalino sulle montagne dell’Abruzzo, e Dro con quello sul litorale romano. Il risultato è che a nessuno importa veramente qualcosa se i riferimenti cadono, se i palcoscenici più “aristocatici” decadono, perché tutto si mischi e nella mischia ognuno possa vivacchiare un po’ di più. In una mediocrità espansa ci sono molte più occasioni di “sopravvivere” che in una eccellenza ordinata. E questo è il teatro italiano di oggi, un mare di mediocrità, dove il pubblico, solo per caso, può imbattersi in qualcosa di veramente valido. E a dire questo, forse viene quasi nostalgia reazionaria di quando il “sistema” era forte, quando in campo c’erano personalità che, per quanto controverse, nel bene e nel male, si prendevano la responsabilità di dare un orizzonte di lettura, una scala di valori che, con tutti gli errori del caso, era sicuramente più veritiera di questo appiattimento, di questa invisibilità. Ma noi non dovremmo arrivare ad avere pensieri del genere. |