Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 26 Del 7 - 7 - 2008 |
Al di là del bene e del male |
Un’«Opera da tre soldi» siderale realizzata da Bob Wilson al festival di Spoleto |
Attilio Scarpellini |
Il pubblico del Teatro nuovo di Spoleto applaude ogni quadro dell’Opera da Tre Soldi firmata da Bob Wilson, perché ogni exploit visivo della regia è sottolineato da una prova magistrale degli attori-cantanti del Berliner Ensemble, e perché quella wilsoniana è un’avanguardia finalmente comprensibile, il frutto di uno straordinario pastiche di richiami estetici che si tirano l’uno con l’altro, come la passerella di personaggi che gira sul proscenio durante i siparietti, dando la sensazione di un meccanismo che non si ferma mai, di un orologio dove ogni figura è destinata a passare e a tornare. Applaude il suono espressionista della lingua e della musica, o meglio quel che di questa risonanza resta, insiste, rintocca nel teatro delle marionette wilsoniane dove l’acidità dei colori neonici sbalza le maschere di un immaginario senza storia che con un colpo di mano ha rimpiazzato ogni residua nozione di Storia: più che nella Londra marxista e dickensiana in cui Brecht aveva immerso il suo melodramma epico, eccoci di nuovo a Gotham City o a Cartoonia, nello stesso non-luogo di un Woyzeck spaziale di alcuni anni fa, dove Mackie, mister Peachum, Brown la tigre, Polly e Jenny dei pirati hanno il ghigno spastico di The Mask o le bocche disegnate a cuore di Betty Boop. Proprio come nei cartoons, Wilson, che ha sostituito gli oggetti con la mimica, sonorizza i gesti degli attori dall’esterno per moltiplicare il loro effetto farsesco, ma anche l’onnipotenza della demiurgia tecnologica che controlla la scena. E proprio come nei cartoons, anche qui si celebra la profonda parentela tra la distorsione di una fantasia inorganica e quella di una figurazione umana deformata dall’alienazione, l’incontro – sorprendente ma non inedito – tra Topolino e Francis Bacon. Scenografie tubolari suggestive e astratte come linee di un quadro di Sol Lewitt, luci che spalmano colori elettrici e assoluti come quelli a suo tempo ricreati da Yves Klein e una composizione del movimento scenico perfetta nei tempi e nel disegno, dove ogni slittamento – fino al più piccolo sberleffo da avanspettacolo – è studiato non per scivolare fuori ma per ricadere nella musica del tutto… Cosa può desiderare di meglio il pubblico – il pubblico del rinato festival di Spoleto – di questo hegeliano risultato, di un meccanismo esemplare che non fa mancare nulla di nuovo agli occhi e di antico all’orecchio, il più spirituale (e a suo modo il più tradizionale) di tutti gli organi? Bob Wilson ha impachettato il poeta dei boschi neri in un sudario di kryptonite verde (blu, gialla, rossa) e lo ha spedito nell’iperspazio per farlo ammirare ai marziani che della sua lingua lapidaria, del suo cinismo dialettico, del suo lirismo umiliato non sanno nulla (e nulla vogliono sapere) ma che a una confezione ben fatta, come è noto, non riescono a resistere: perché ciò che parla al mondo e persino al di là dei mondi, non è l’antagonismo del verbo (troppo locale, troppo storico) ma il formalismo universale dello Spettacolo. E questa Opera da Tre Soldi griffata da uno dei maestri dell’avanguardia contemporanea rappresenta la più completa e rigorosa vittoria del formalismo artistico sulle macerie ideologiche del teatro epico perché la sua distanza non si rovescia in alcuna coscienza pubblica per imporle di fare il suo lavoro, non chiede e non chiama alcuna conversione personale, si fissa in un momento di contemplazione e poi si dilegua, lasciando fluttuare nell’aria la bolla euforica della propria bellezza. Capolavoro, certo: summa della sinestesia wilsoniana, probabilmente mai così potente ed esatta, e di un brechtismo divenuto addirittura siderale nella sua presa di distanza dalla fisicità del dramma, restituito per prototipi e macchine senzienti all’altezza della nevrosi e della corruzione sentimentale che non smette di affliggerci - all’altezza del comune grado di reificazione in cui il mondo (il nostro mondo, cioè quella generalizzata borghesia a cui Wilson parla) è comunque imprigionato. Ma a fatica, dietro la maschera di Peachum, questo Scroodge senza ravvedimento, si percepisce quell’esercito brulicante di lumpen proletari che da un momento all’altro potrebbe inondare la città. Paradossalmente, è proprio la città, questo incubo tipicamente brechtiano, a latitare in una messinscena dove l’alienazione è ormai una forza organica – ricapitolata, da Chaplin in giù, nelle mille sfumature di un corpo macchinizzato - ma il senso della moltitudine si è fatalmente perduto assieme alla teologia politica che lo faceva circolare. Di tutti i poteri che infettano l’universo di Mackie e di Peachum, l’unico a cui la scena di Wilson finisca con l’attribuire un vero rilievo, non a caso, è quello biopolitico della sessualità: il più soggettivo e il più universale, il più fragile e il più potente, di certo il più lirico, ma anche quello che più sottilmente sfugge a un processo di individuazione sociale. |