Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 26 Del 7 - 7 - 2008 |
Dietro la maschera #1 |
Paolo Sorrentino si china nel pozzo della Prima Repubblica, regno del “divo Giulio” |
Gian Maria Tosatti |
«Sarà che noi due siamo di un altro lontanissimo pianteta» e la macchina gira attorno a Giulio e Livia e al loro succintissimo abbraccio. In televisione c’è il concerto di Renato Zero. Lei distoglie lo sguardo e lo lascia scivolare, lungo la sagoma immobile di quel volto disegnato, schizzato, caricato mille volte, diventato icona, riconoscibile anche solo da due tratti. Lo scorre per affondarci dentro lo sguardo, con una certa curiosità mentre è del tutto assente nel transfert televisivo. La soggettiva cala tra i rilassamenti della pelle, ferma, che si lascia guardare.
E’ tutto qui il film di Paolo Sorrentino. Nella sua migliore sequenza. In questo momento si scioglie tutto. Si entra impudicamente dentro la pochezza dell’umana carne. Nella solitudine insuperabile di quello che Macbeth chiama “povero istrione” e che nella scena successiva sembra, quasi per contrasto, volersi lanciare in una ridicola e titanica confessione con piglio da statista diabolico, scimmiottando un hitleriano Chaplin, con tanto di lucette da ribalta e di platea vuota. E poi tutto torna come prima. A scorrere nell’alternanza dei flussi e delle giornate buone o cattive. Tutto irresistibilmente umano. Tutto, in fondo, da quattro soldi, come il potere in Italia, che è una farsa di stragi e di segreti che, a distanza di qualche anno, sembrano solo una decadente moina aristocratica. E i suoi leader, anche i più duraturi, i più mediaticamente spettacolari, vengono messi a letto e sepolti dolcemente dalla coperta della dimenticanza. Ed eccolo lì in divo Giulio che piano piano scolora, scompare, si confonde col buio della sua stanza e poi forse non c’è nemmeno più. A Sorrentino in fondo non interessa nemmeno Andreotti. Lo ha detto e ripetuto in più di una occasione. Non è la figura che fa il film, ma il personaggio, uno fra i tanti, uno a caso, in fondo, di spessore non troppo superiore ai vari Cirino Pomicino, Evangelisti, Cossiga. Andreotti in fondo è sempre stato una maschera. L’incarnazione del potere, una sorta di feticcio che poteva prestarsi anche a questo film (lo testimoniano per giunta le sue dichiarazioni e smentite a riguardo). Ed è appunto la maschera che sua moglie, sulla sedia accanto del salotto, mentre la televisione manda Zero, cerca di toccare con lo sguardo, trovando invece la rassicurante sensazione che essa negli anni è cambiata, che si è rilassata, ingrassata, è invecchiata. E’ questo che Sorrentino sembra aver capito e dunque non fa solo un bel film, ma di fatto fa l’unico film possibile. Funambolicamente teso fra verità e sospetto, tra storia e cronaca, tra rilevante e inutile. Attraverso una sceneggiatura che taglia trasversalmente il piano della realtà diviso, così come lo conosciamo, fra storicità e pettegolezzi, il regista esce dall’odioso contesto agiografico in cui è impegnato il mondo del cinema italiano riconvertito alle fiction col loro carico di figurine e figurette elevate a grandi eroi. E compie una operazione coraggiosa e di senso: spoglia tutto dalla sua aura presunta, smonta dal baldacchino da santo di paese il suo protagonista e lo lascia correre, gli dice di andarsene via, che è libero. Un punto di vista nichilista forse, che non prende posizione, perché non c’è nessuna lotta. Lascia piovere le sequenze di omicidi come fossero appunto accidenti che piovono su chiunque. Non si preoccupa di discernere tra bene e male perché è roba da chierichetti perversi e invece va avanti, avanti fino alla fine. Protagonista di questo film è la time-line, che coincide con il tempo della storia, in cui è la quantità che conta, sovrapponendo rilevante e irrilevante nelle enormi matasse svolte del filo tessuto dalle Parche e che va piano piano piano ammassandosi fino a sommergere tutti gli attori, li annega, li spiaggia, li fa perdere di vista, fa il mare calmo e quello agitato a suo piacimento e si fa cavalcare finché qualcuno ce la fa, senza permettergli l’ambizione di lasciar traccia al passaggio, poiché com’è noto, sull’acqua nulla si scrive. In questa chiave il regista si trova a contare sull’aiuto di un Servillo immenso, come sempre. Si gonfia e sgonfia, con un senso del ritmo incredibile. Arriva a rallentare i suoi giri fino quasi a fermarsi per poi riprendere a vibrare in una partitura dal tema elementare che per ottenere spessore chiede, e ottiene, una quantità impressionante di variazioni. E’ lui in fondo che deve prendere una maschera sfondata, consunta dalla sovrapposizione di decine di penne che ne hanno stilizzato i tratti, e trasformarla in un volto, capace all’occorrenza di emozionare. E così fa senza scomporsi, senza andare mai sopra le righe, restando rigorosamente dentro quei connotati di concentramento. Sorrentino lo espone allo sguardo degli spettatori di oggi, ma anche di quelli di allora, come nella scena della passeggiata notturna, mentre un macellaio scarica il suo furgone e per un attimo rimane a guardarlo senza più ravvisare in quella sagoma gobba altro che il vessillo ammainato di un potere esaurito. E all’altezza di Servillo sono anche gli altri protagonisti, tutti, che si lasciano vivisezionare dalla macchina del regista, che con la sua ipertrofia visiva (forse a volte eccessiva) sembra ossessionata dall’idea di scavare fisicamente l’immagine e quello che c’è dietro. Un film dai molteplici livelli di lettura che sembra più una parabola sul potere che non su quella specifica declinazione che ne ha avuto in una certa pagina della storia italiana. Un’opera che testimonia la crescita ulteriore di un autore cui manca ancora l’ultima professione d’umiltà nella ricerca di una maggiore misura nella tecnica di ripresa, che a volte esce da quella discrezione dei mezzi che sempre gli compete. |