"Taurus" durante le riprese
Un'immagine da
Un'immagine da "Il sole"

Anno 1 Numero 26 Del 7 - 7 - 2008
Dietro la maschera #2
Dalla trilogia di Sokurov alla mirialogia delle intercettazioni, la pubblica vita privata dei leader.

Gian Maria Tosatti
 
L’automobile procede lentamente, lungo la strada sterrata che conduce alla casa di campagna del vecchio leader. Il sole allo zenit dà un senso di capogiro. Siamo in una temporalità ibrida fra il presente e il ricordo, che Alexander Sokurov decide di rendere sbiadendo la fotografia del suo film e confondendone i colori sulla dominante del verde. Seguiamo i traballamenti del veicolo scoperto e le ripercussioni sulle facce dei passeggeri, abbacinati dalla visione del cielo. Poi ad un certo punto sul volto di Vladimir Ilic si disegna un sorriso e dalla sua bocca esce una sorta di vagito, che non vuol dire niente, è solo un modo per esprimere la propria voglia di concedersi a qualcosa di lontano. Così poco dopo si rotolerà nell’erba davanti agli occhi della sua guardia personale, assieme alla compagna, ormai anziano, ad un passo dalla morte, che nella scena successiva verrà a trovarlo nei panni di Josif Vissarionovic.
E’ forse questa la scena che resta più impressa dell’intera trilogia del potere firmata da Alexander Sokurov e divenuta uno dei capisaldi del cinema contemporaneo. E’ questa la scena forse più azzardata per raccontare la figura di un dittatore controverso come Lenin. Un vagito, una forma espressiva pre-linguistica, primitiva, per esprimere la necessità della gioia che nella senilità reclama il suo primato sulle emozioni e sui pensieri. Impossibile allora, una volta arrivati nella residenza estiva, poter riprendere le fila del proprio ruolo, della Russia, della Rivoluzione. Stalin arriva e trova Lenin già battuto da quel vagito. Gli parla col “dovuto rispetto” e poi se ne va furioso, ma non in fondo preoccupato dalla debole opposizione di un capo talmente lontano ormai, nelle zone a lungo dimenticate del sé, che fa quasi fatica a capire.
 
Nei suoi tre film il regista russo ci racconta il potere attraverso i momenti di maggiore distanza dal potere stesso di tre uomini chiave del ‘900. Lo fa con la vecchiaia malata di Lenin in Taurus e lo stesso fa con i giorni di Hitler al Nido dell’Aquila in Moloch, fino all’ultimo passaggio, Il sole, dedicato alle ore della sconfitta del Giappone e della resa di Hiroito. Anche quest’ultimo, in ogni singola sequenza sembra assai distante dalla maschera che il potere ha disegnato su di lui. L’imperatore si muove con un certo impaccio nel suo bunker, attento e premuroso verso la sua sposa. Riemerge di tanto in tanto per potersi dedicare ai suoi studi di laboratorio o per incontrare inviati del governo americano che ne dispongono a loro piacimento. Osserva molto, Hiroito, parla poco. Cerca di mantenere la concentrazione. Cerca di non sbagliare le sue mosse, anche le più quotidiane, le più piccole. Ed è in questo modo che lentamente lo spettatore comincia ad interpretare quest’uomo enigmatico, fino a capirne il sottile conflitto con il potere che lo ha scavalcato per opera dei suoi capi militari, fino a distruggerlo, fino a spodestarlo (per sua stessa decisione) dall’altare di divinità che da sempre spetta agli imperatori giapponesi.

I tre uomini raccontati da Sokurov, dunque, sono assai lontani dai totem evocati nei titoli che gli affianca. Sono uomini piccoli, barbaramente distrutti dal potere, trasfigurati e sfigurati. Volti su cui il potere ha compiuto l’irrevocabile violenza della riduzione a maschera, a feticcio, sotto cui ancora si muovono emozioni umane, desideri e necessità di ordine troppo piccolo per essere soddisfatte senza caduta. Ed infatti cadranno questi tre uomini. Due volte. La prima a cadere sarà la loro stancante maschera, per mano di altri, la seconda, per dirla con Buchner, sarà la loro faccia, ormai scomparsa, invecchiata,  stracciata sotto il soffocante feticcio dittatoriale.
Il potere logora anche e forse soprattutto chi ce l’ha. E’ questo il teorema di Sokurov, ed è per dimostrarlo che spoglia i suoi protagonisti dalle masse piccole o grandi cui hanno fatto da capo e li ritrae in situazioni domestiche, soli, con pochi al seguito, pochi coi quali poter essere sé stessi o ciò che ne resta.
Ma Sokurov fa anche un’altra scelta importante. Non inventa dei personaggi, dei villains che potessero reggere il suo ragionamento. Al centro del suo obiettivo stanno tre figure storiche appartenenti a vicende non troppo lontane negli anni. Questo per avere un inequivocabile piano di realtà da intersecare con gli altri piani del discorso. E la verità, i suoi confini, sono forse l’elemento di senso, la base imprescindibile per una riflessione sull’umano. La vita allora diventa un film. E non esistono aspetti che possano essere nascosti. Per quanto minori, forse insignificanti nella prospettiva stessa della Storia, come quelli che stanno alla base della trilogia.

Gli uomini dunque sono quello che sono. Bisogna conoscerli, bisogna cercare di scoprirne anche i lati meno appariscenti, quelli che sembrano meno attinenti per avere la misura della loro statura. Leggendo nelle note a margine, un dio può diventare un uomo, un eroe può diventare un mostro, più difficile che accada il contrario. Le piccolezze, i dettagli, raccontano molto di più di quanto forse non sembri. E questa riflessione si affaccia in un momento particolare della storia di questo paese, in cui da tempo impazza la bufera scandalistica, che trasforma in oro scoop reali o falsi allo stesso modo per via della voracità di un’opinione pubblica che ormai confonde il gossip con la cronaca. Da qualche tempo sui giornali sono finite le telefonate di diversi uomini di potere, raccolte all’interno di inchieste giudiziarie. Qualche volta esse svelano retroscena gravissimi, come i casi Cirio, Parmalat e Unipol, altre volte affondano nell’imbarazzante ambito dell’erotismo a scopo lavorativo. Non sono questioni della stessa importanza, ma tutte, contribuiscono a definire con chiarezza il profilo di chi, per un motivo o per un altro, si trova nella posizione di determinare il futuro degli italiani (e spesso ci è stato messo dagli italiani stessi). E’ così per il primo ministro che fa il galante non solo al telefono, ed è così anche per Agostino Saccà, che con le pessime fiction Rai alfabetizza – nel male più che nel bene – le nuove masse popolari. E, come per loro, è così per quasi tutti ricoprano una posizione anche di minimo interesse pubblico, debosciati del Grande Fratello e veline compresi. La storia, ci dimostra Sokurov, fa i suoi conti e non perde nulla nel suo computo finale. Nascondersi non è poi troppo semplice e nella società di Facebook, in cui la competizione collettiva si gioca in merito alla visibilità, tramite contatti sul proprio Myspace o, per i più in vista, ai minuti di presenza nei teleschermi, la privacy sembra quasi un anacronismo legato strettamente a quelle questioni che per un motivo o per l’altro, per pudore o per prudenza, devono rimanere taciute. Ma è raro che a qualcuno sia davvero concesso il privilegio di scegliersi la propria immagine. Essa è il risultato delle azioni dei protagonisti e della curiosità degli spettatori. Curiosità sacrosanta, specie quando è rivolta verso chi si occupa della cosa pubblica. D’altra parte l’elezione ad un ruolo istituzionale in uno Stato democratico coincide con la spogliazione di tutti quegli attributi riconducibili al sostantivo “privato”, sia in ordine d’interessi, ma anche, di conseguenza, a quelli legati alla sfera delle “attitudini” per via della delicatezza di tali posizioni. Per cui ci sembra assai difficile comprendere la posizione di coloro che cercano d’impedire che l’opinione pubblica, che di politici e manager statali è di fatto tecnicamente ed economicamente datore di lavoro, venga a conoscenza di elementi per meglio valutare i motivi del loro consenso o dissenso politico. D’altra parte se i leader sono tutti oggetto del capillare giudizio della storia – come ci mostra la trilogia sokuroviana – perché mai dovrebbero sottrarsi a quello della cronaca?