Anno 1 Numero 27 Del 14 - 7 - 2008
Serie A, serie B, serie C…
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Questa settimana abbiamo deciso di pubblicare un numero anomalo, che esce dagli schemi abituali della nostra rivista e cerca un approfondimento particolare sullo stato del teatro contemporaneo in Italia. La riflessione parte inevitabilmente dai festival come elemento di attualità, in una stagione che ne vede conclamata la crisi, ma poi il discorso si allarga a temi più generali. Si parla di teatro, è vero, ma nelle parole dei cinque direttori di strutture invitati a confrontarsi c’è l’urgenza di agire sulle persone prima che sui palcoscenici, perché se è vero che il teatro esiste quando c’è un attore sulla scena e uno spettatore seduto davanti a lui, allora è necessario che quell’unico spettatore non perda il contatto, l’indirizzo di un luogo in cui ci si confronta faccia a faccia. Quindi si scrive “teatro”, ma si legge “cultura” e s’intende la scena come uno dei molteplici tasselli tutti determinanti alla vitale identità di un popolo o, per azzardare un termine ormai romantico, di una comunità.
 

Questo numero 27 de La differenza è dunque una sorta di anomalia necessaria, un numero che in linguaggio fotografico si direbbe “al negativo”. Per una volta non sono i critici (d’arte o della società) a parlare, ma sono i protagonisti, gli operatori, ad esporre le proprie idee. Ed infatti, per la prima volta, usiamo l’editoriale come presentazione e non come rompighiaccio. D’altra parte di idee forti nei questionari ce ne sono in quantità. Ad Mario Martone, Massimiliano Civica, Fabrizio Grifasi, Giorgio Barberio Corsetti e Massimo Paganelli abbiamo posto le stesse sei domande sulla base di una breve riflessione iniziale. Ognuno ha risposto come poteva, alcuni si sono lasciati intervistare direttamente, altri hanno preferito rispondere in forma di lettera. Ma tutti hanno lasciato da parte le frasi di circostanza e hanno parlato chiaramente, con una dose di realismo decisamente superiore al consueto limite fissato dal politically correct. Ma d’altra parte siamo all’indomani di una rivoluzione politica che ha polverizzato molti castelli del potere – compresi quelli legati alla cultura. Si può far finta di non vedere, accennando e smentendo come ha fatto nei giorni scorsi Bettini su Repubblica, prima scaricando e poi riabilitando Rutelli. Oppure si può decidere di rifondare il discorso a partire appunto dalla sincerità. E in questo gli artisti o quelli che gli stanno particolarmente vicino, hanno un incontestabile primato.

 

Alcune riflessioni possono sembrare spiazzanti, come quella di Massimiliano Civica sul Teatro popolare d’arte. Ma poi a leggere bene ci si rende conto che a forza di giustificazioni e abbellimenti con cui ci siamo cucinati in questi decenni, sono proprio i discorsi più concreti, più lucidamente essenziali, ad avere un suono reazionario. E allora Civica parla di qualità incontestabile. Esiste forse altro?

E d’altra parte dice bene Corsetti quando riflette sul ruolo del teatro che non si è indebolito, ha la stessa forza dialettica che aveva nella Grecia classica, la differenza sta solo nel fatto che allora era un rituale collettivo, oggi no. Oggi collettiva è la televisione. Però resta vero che all’uscita di un palcoscenico si inizia a discutere, a volte a litigare, mentre alla fine di una trasmissione si spegne la tv e ci si mette a dormire.

E ancora è difficile trovarsi in disaccordo con Martone, Paganelli e Grifasi quando smontano senza alcuno sforzo particolare l’intero edificio della politica degli eventi che non solo ha polverizzato l’abitudine alla cultura, ma non ha neppure portato quel misero guadagno politico su cui qualcuno aveva puntato.

E dunque oggi da cosa si riparte?

A leggere tra le righe pare proprio che l’Italia sia arrivata al day after. Non c’è più niente in piedi. Restano gli artisti, come sparuti gruppi di umani tra le macerie di una passata guerra nucleare. Ma non è un male. L’arte è essenziale. Il resto è d’appoggio.

 

Ma anche l’appoggio è importante, e allora c’è una riflessione con cui vogliamo chiudere.

In tutte le interviste è proprio questo clima di inadeguatezza della macchina rispetto alla propria missione e ai contenuti che deve gestire ad essere il dato più evidente. Nell’incontro pubblico che la nostra redazione ha tenuto a Castiglioncello la scorsa settimana ci è stato obiettato che la crisi delle istituzioni culturali è ciclica e che ogni volta l’arte – il teatro si diceva in quel caso – si è sempre riorganizzato creando nuovi circuiti vitali accanto a quelli esistenti senza bisogno di rischiare il tracollo cercando di attaccare il palazzo d’inverno del potere.

Da parte di chi scrive quest’analisi è da ritenersi non solo sbagliata, ma base della stessa crisi culturale che si sta vivendo – almeno in ambito teatrale. Se proviamo a rifletterci vedremo come in ogni fase il teatro ha rilevato l’inadeguatezza del proprio sistema vigente senza però sostituirlo, ma affiancandogli un nuovo sistema. E’ successo a Ivrea, quando si attestava la morte del modello di “stabilità teatrale”. Gli stabili rimasero in piedi con le loro sovvenzioni miliardarie e gli si affiancarono i centri di ricerca, divenuti poi “stabili d’innovazione”, con sovvenzioni milionarie. Da qualche anno anch’essi sono stati unanimemente dichiarati clinicamente morti (seppure ancora attaccati alla macchina per succhiare ossigeno), ma resistono senza dar segni di resa mentre gli si affianca un nuovo girone teatrale, quello dell’indipendenza che, come dice la parola stessa, non conta su alcuna sovvenzione. Ogni volta al vecchio girone se ne aggiunge uno nuovo, più piccolo, con meno risorse e dunque con sempre più restrizioni per gli artisti che vi operano. E’ vero che la Storia è destinata sempre a ripetersi, però gli uomini sono anche chiamati a correggere gli errori e dopo tre volte, forse, alla prossima crisi sarà anche il caso di seppellire tutti i morti liberando le risorse milionarie che tengono in ostaggio per ripartire da zero, in un teatro unico senza gironi, ossia senza quel particolare tipo di organizzazione che, come insegna la storia (della letteratura), si addice all’inferno, ovverosia, appunto, al mondo dei morti.