Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 28 Del 21 - 7 - 2008 |
Uno schermo per la visione della realtà |
Il rapporto diabolico fra media e realtà nell’ultimo saggio di Jean Baudrillard |
Attilio Scarpellini |
«Tutti i giustificativi non fanno che mascherare proprio questo oscuro desiderio di evento, di sconvolgimento dell’ordine delle cose, quale che sia. Desiderio perfettamente sacrilego di irruzione del Male, di restituzione di una regola segreta che, sotto forma di un evento completamente ingiustificato (tali sono anche le catastrofe naturali) ristabilisca una sorta di equilibrio tra le forze del Bene e quelle del Male». Così maiuscolati, come i principi metafisici che erano un tempo, o gli spettri che sono nel frattempo diventati, il Bene e il Male scivolano dalle pagine dell’ultimo saggio pubblicato da Jean Baudrillard prima della sua morte, suggellando una visione inconfessabile: quella che nella catastrofe dell’11 settembre del 2001 vede mescolarsi sogno ed effettività, giubilo e terrore, desiderio e ripulsa verso qualcosa che si produce senza essere stato possibile. Avvinghiati in una dialettica irriducibile, come gli ostaggi e i terroristi sulle poltrone rosso fuoco del teatro Dubrovka di Mosca – come gli attori e gli spettatori sul set della morte di Lady Diana, una “interazione omicida” dietro la quale è acquattato il mondo, noi, con il nostro desiderio di essere ostaggi e nel contempo complici dei media – questi fantasmi riaffiorano su un orizzonte che convogliando tutti gli eventi sulla stessa linea di equivalenza, li annulla uno per uno (e uno nell’altro), per celebrare attraverso di essi soltanto la propria potenza informativa: l’insignificanza morale dello Spettacolo che, perduto il “pathos della distanza”, si traduce in Realtà Integrale. Estrema, ennesima vittoria dello Spettacolo, dunque? Niente affatto, dal momento che “con il mondo reale abbiamo soppresso anche quello dei segni” e ogni rappresentazione, perdendo la sua distanza, ha perso anche la duplicità della sua scena. Per quanto lo si rovesci su se stesso, a due anni dalla sua traduzione italiana, decostruendo e ricomponendo una struttura senza inizio e senza fine, dominata dall’immanenza della scrittura, Il Patto di Lucidità e l’intelligenza del Male resta un libro sulla fine e sulla nostalgia della trascendenza, dove il sacrilegio (la trasgressione, l’antinomia, il gesto simbolico e ingiustificato) parla segretamente alla regola e il desiderio cerca in extremis di ristrutturare un codice che possa ancora dilazionare la letale immediatezza del suo appagamento, aprire un varco o semplicemente provocare una convulsione nell’ordine forse più totalitario che sia mai esistito quello di una “realizzazione del mondo immediata e senza appello”. Certo, rievocando le catastrofi naturali e il sublime kantiano, è lo stesso Baudrillard a nascondere la causa dentro l’effetto, finendo col resuscitare la Storia soltanto come Spettacolo: ma in questa estetica aberrante, che alterna la radicalizzazione più acuta alla banalizzazione più monotona, il male rappresenta soprattutto l’ipotesi che la fascinazione dell’evenemenziale non smetta di turbare la prevedibilità di una realtà sempre più integrata nel virtuale. Il male è l’irreversibilità dell’evento che irrompe nel totale controllo tecnico degli eventi per suscitare con la sua inquietante estraneità il dubbio che il processo di normalizzazione della Storia – questo pensiero unico del Bene, senza più la metafisica - possa affermare il suo completo trionfo. Ma è anche il colpo di coda del Fato nel mondo in cui l’eccesso di possibilità erode tutti i destini condannandoli a un perpetuo susseguirsi di liberazioni e a una moltiplicazione di identità a somma zero. E’ l’opacità (del corpo, del desiderio) che viene ad ottundere l’occhio insonne di una trasparenza generalizzata (dai media, dal politically correct). E’ lo scrupolo del divieto che risorge dal parossismo della deregulation morale (What are you doing after the orgy?), non come nostalgia della norma, ma come stratagemma della seduzione (ne ha parlato di recente anche Slavoy Zizek, segnalando le strane ma reali spinte pulsionali che si annidano nel successo di massa dei fondamentalismi religiosi). E’ l’inesauribilità di ciò che, a dispetto di tutte le sostituzioni che congiurano verso un compimento virtuale del mondo, non accetta equivalenze e non può essere scambiato con qualcosa d’altro. Baudrillard non parla mai del teatro distinguendolo dal campo generale dell’astrazione e della trascendenza del segno. Ma a più riprese evoca la scena come il luogo in cui il segno e la realtà giocano la loro distanza e il loro desiderio, il loro agonismo e la loro seduzione, in una parola l’irriducibilità del loro essere doppi o per usare l’espressione del filosofo francese, del loro essere una dualità, del loro porsi l’uno all’altro come destino. E senza volerlo, la sua critica dell’onnipotenza interattiva dei mezzi di comunicazione di massa, si apre su una specie di teoria metaforica dell’evento teatrale che a sorpresa riabilita ciò che da tempo, almeno nel mainstream artistico, risulta unanimemente screditato: la rappresentazione. E’ la funzione di rappresentazione della scena – e non come si dice spesso la residuale e ostinata presenza di un corpo in situ e de visu – che la distingue dalla sfera del Virtuale dove invece “nulla è rappresentabile” poiché l’immersione totale dello spettatore nel magma visivo, abolisce la distanza tra la realtà e il segno, impedendo alla prima di trascendere nel secondo e al secondo di incarnarsi nella prima, ma spostandoli entrambi in una realtà in cui le immagini e le cose sono interscambiabili. Nella sua differenziazione – nella sua astrazione, nella sua trascendenza, nella sua testualità - il segno è a sua volta una scena originaria, quella del linguaggio, «e la scomparsa di questa scena apre su un principio di oscenità, su una materializzazione pornografica di ogni cosa». Fuori dal gesto di rappresentare, e dunque di istituire un agone, l’unico evento possibile è quello dell’equivalenza tra l’arte e il mondo, la «codifica integrale del corpo nel visibile, in cui diviene in effetti definitivamente reale, persino più di quanto sia realmente!» Nella copertura mediatica della guerra, l’immagine embedded potenzia, piuttosto che criticarli o narrarli, gli effetti di distruzione, cioè aggiunge alla forza della realtà quella dello spettacolo (reifica la visione, trasformando la violenza in consumo visivo) perché lo schermo non ammette distanze e non prevede al di là (è qui attorno, come diceva Eisenstein del cinema, ci avvolge, proprio come la realtà). Il mondo che vediamo nello schermo non ci guarda (non ci “riguarda” direbbe Didi-Huberman), il mondo ha smesso di essere un altro: il filo ombelicale della rappresentazione si è rotto, togliendo alla scena il lato profondo (la “parte maledetta”) della sua illusione. Lo schermo – scrive infine Baudrillard – fa schermo a qualsiasi rapporto duale, “a ogni possibilità di risposta”. La distanza della rappresentazione è il luogo della risposta e alla sua perdita di confini – ma questo lo aggiungiamo noi – non può che corrispondere una crisi del teatro come risposta all’indifferenza del farsi virtuale del mondo. Più vicinanza, si è a lungo sostenuto nel momento in cui, tra altre ipocrisie, ci si determinava ad abbattere la parete tra l’attore e il pubblico. E invece no, più distanza, più alterità… «Solo nella separazione stretta della scena e della sala lo spettatore è un attore a pieno titolo. Ora tutto concorre oggi ad abolire questa separazione: immersione dello spettatore nello spettacolo… Lo spettatore diviene conviviale, interattivo. Apogeo o fine dello spettacolo? Quando tutti diventiamo attori, non c’è più azione, non c’è più scena. E’ la morte dello spettatore in quanto tale». In libreria: Jean Baudrillard, Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male, traduzione di Alessandro Serra, Milano, 2006, Raffaello Cortina editore |