Punti di vista #1
Un questionario proposto ai critici di teatro italiani (Franco Cordelli, Massimo Marino, Antonio Audino e Gianfranco Capitta).

redazione
 
«Vale proprio la pena di occuparsi di teatro in un paese  in cui il teatro sta morendo di inedia e, quel che è peggio, di umiliazione?»
Nicola Chiaromonte, dicembre 1961


Se non espulsa dai giornali, la critica di teatro appare sempre più ridimensionata non solo negli spazi che occupa ma nel rilievo che le viene attribuito sulle pagine culturali. E’ l’evento teatrale che è sempre meno “notiziabile” in un paesaggio monopolizzato dal cinema e soprattutto dalla televisione o è l’esercizio della critica in quanto tale che sta perdendo di senso nell’attuale regime della comunicazione?

Franco Cordelli*: Sicuramente entrambe le cose. Nel senso che il teatro è sempre più, per ragioni strutturali, una forma di comunicazione minore. Per ragioni strutturali intendo la velocità di trasmissione e velocità di percezione: essendo il teatro tempo narrativo, non ha neppure quel glamour che può avere una mostra d’arte, dove volendo puoi andare restare un quarto d’ora e andartene, si sottrae sia alle leggi della contemplazione statica, che sono ovviamente esigue, sia alle leggi, che invece sono intense, delle dinamiche di comunicazione attualmente vigenti, improntate a una velocità vertiginosa. Questo andando al nocciolo della faccenda: che cos’è il teatro come mezzo di comunicazione. Per quanto riguarda la critica, proprio perché il teatro è una forma d’arte marginale, minore (anche senza usare questa espressione nel senso un po’ troppo alto, ormai quasi chic, che le attribuisce Deleuze) quindi meno interessante per i giornali, è anche meno interessante per chi dovrebbe seguirla. E’ un po’ quello che accade all’insegnamento scolastico: perché la classe insegnante è sempre meno considerata? Perché è una professione mal pagata, poco attraente, non brillante, ormai delegata alla passione personale di alcuni singoli individui che continuano a considerare la trasmissione del sapere come una specie di missione. La stessa cosa accade con il critico teatrale: quali sono le prospettive sia materiali che di ritorno sociale che ha di fronte un giovane che voglia dedicarsi alla critica teatrale? Sono scarse, se non nulle. Di conseguenza c’è anche un decadimento, un progressivo isterilimento della critica. Una giovane critica, infatti, non mi sembra si intraveda all’orizzonte.
Massimo Marino**: Non vedo problemi di spazi. Non siamo più negli anni ’50 e neppure nei ’70. Internet fornisce spazi immensi e i giornali, comunque, li leggono veramente in pochi. Forse il teatro è marginale rispetto alla società, forse neanche questo è vero, visto il numero di Dams e di pubblicazioni di diverso genere, addirittura pletoriche, dedicate allo spettacolo dal vivo.
Antonio Audino***: Non c’è alcun dubbio. Persino il “domenicale” del “Sole 24 ore”, che per anni ha concesso a Renato Palazzi e a me la più ampia libertà di scelta e anche uno spazio non marginale,  ha da qualche mese recluso la critica in un paio di colonne di spalla, con l’assoluto divieto di recensire spettacoli che non siano in scena per lunghi periodi. Il che significa non recensire più nulla, se non spettacoli di giro che non hanno mai interessato quelle stesse pagine. Dunque il giornale assume una funzione puramente pubblicitaria e commerciale, deve comunicare soltanto eventi dei quali il lettore possa fruire, o meglio che possa consumare. Ma questo è errato da tutti i punti di vista. Anzi, mi pare la morte dell’idea stessa di giornalismo, in generale, ovvero la morte della possibilità di comunicare a chi non l’ha visto e magari non lo vedrà mai un fatto che viene ritenuto importante. Regola che dovrebbe essere tanto più forte nell’ambito dello spettacolo che ha in Italia scarsa circolazione. Credo che ad uno studente di Catania o a un musicista di Como (tanto per dire di un target alto come quello del “domenicale”) interessi sapere com’era L’opera da tre soldi di Brecht con la regia di BobWilson e con il Berliner Ensemble in scena per due giorni a Spoleto, proprio perché non può andarla a vedere, e non soltanto per capire se era il caso di acquistare il biglietto. Il giornale sul quale scrivo ha invece deciso di non recensire l’evento. Certo, la sfiducia è nel teatro, considerato ormai un intrattenimento noioso o intellettualistico, mentre la gente, ci sentiamo dire dai nostri capi redattori, “vuole altro”. Anche questo metro di giudizio appare del tutto fuorviante e estremamente distante dalla realtà. Ci sono dati statistici chiarissimi e autorevoli, in Italia, e non solo, si sta producendo un generale allontanamento dalla televisione, il fenomeno del reality che tante considerazioni massmediologiche e filosofiche aveva suscitato è ormai considerato morto. Finalmente è crollato il mito del dato Auditel, gli studiosi ci dicono che la gente tiene sì la tv accesa ma la guarda solo quando c’è qualcosa che la interessa e non per periodi lunghi. Accanto a  questo va registrato un consistente aumento di sbigliettamento per il teatro, certo motivato dai grandi numeri dei musical, ma comunque relativo ad una tendenza ad uscire e ad usufruire di spettacolo dal vivo. E poi le tanto decantate notti bianche, le folle oceaniche presenti a mostre e concerti non dovrebbero mostrare il bisogno di collettività di condivisione,  di fruizione in presenza, non mediata, com’è soltanto quella dello spettacolo dal vivo e del teatro in particolare?
Gianfranco Capitta****: Ho il privilegio di scrivere su un giornale, il manifesto, che da sempre (per me e per lui) non nega al teatro interesse e dignità, e quindi neanche spazi. A volte, sentendo le lamentele altrui, o anche degli artisti liquidati in un francobollo, mi viene la tentazione di legare il poco spazio concesso a quanto a quello spazio è destinato. Ma è solo un cattivo pensiero, da cacciare subito….


Il critico è stato a lungo considerato una sorta di mediatore tra il teatro e il pubblico o tra il teatro e la cultura che lo circondava. Questo è stato sicuramente vero e lo è ancora in quei paesi – ad esempio negli Stati Uniti – dove la critica giornalistica continua a esercitare un’influenza sui movimenti di pubblico e sulla formazione del suo gusto. Ma da un certo momento in poi, lo specifico teatrale ha preso il sopravvento e la critica è stata sempre più vissuta e percepita come una funzione interna al mondo teatrale che si esercitava non solo sulla pagina, ma anche attraverso il lavoro di organizzazione culturale, l’attività editoriale, la direzione artistica. Il critico doveva “sporcarsi le mani” e svolgere un ruolo di promozione delle correnti artistiche in cui credeva: non si limitava più a decifrare negli spettacoli che recensiva un’idea del teatro, ma si impegnava a costruirla in prima persona. Quale è oggi, nella vostra esperienza personale, il bilancio di questo cambiamento del punto di vista intervenuto negli anni 60-70? Pensate la critica abbia ancora una funzione di costruzione del movimento teatrale contemporaneo (sempre che questo movimento esista)?


Cordelli: Capisco bene questa domanda poiché soprattutto nella prima parte della mia vicenda di critico teatrale, parlo degli anni 70, credo di non aver fatto soltanto il critico teatrale ma di essermi, come dite voi,  “sporcato le mani”, cioè di aver promosso e favorito lo sviluppo di un certo tipo di teatro piuttosto che di un altro, quindi di essere stato un critico “di parte” e non solo nel senso ideologico e intellettuale del termine, di scelta di campo poetica, ma nel senso di fare le cose, di organizzarle.
Oggi non lo faccio più ma non perché all’improvviso ho deciso di non sporcarmi più le mani o perché ritenga che sporcarsi le mani sia una brutta cosa, ma perché mentre in quel momento fare quella scelta mi sembrava che avesse - e di fatto aveva - una funzione di influenza su un pubblico e sulla formazione di una comunità teatrale, oggi credo non sia più così. Oggi si rischia di prendere partito in modo sbagliato, di diventare settari. Personalmente mi auguro di essere ancora un critico militante, ma lo sono in modo se vogliamo più tradizionale, più arretrato, ho fatto un passo indietro. Ma se sono arretrato nel mio modo di operare è proprio per non fare il passo più lungo della gamba, per non cadere nella trappola del settarismo: se oggi lavorassi a fianco di una serie di gruppi sarebbe inevitabilmente un’operazione escludente, che va a danno di altri. E’ anche una questione di crescita, di allargamento della sensibilità:  spero di lavorare per un’idea più ampia di teatro che arrivi fino a includere esperienze teatrali che negli anni 70 consideravo improponibili. Penso all’esperienza di un regista come Massimo Castri verso il quale, proprio in quegli anni, ero molto critico e della quale oggi riconosco invece la grande qualità artistica.
Marino: Una domanda così lunga può ricevere solo una risposta brevissima. Il panorama è cambiato. Critica oggi si fa in molti modi. Basta volerla fare.
Audino: Nel momento in cui si ragiona sulla critica italiana non si può dimenticare cos’è successo negli ultimi anni. Era proprio Roberto De Monticelli a dire che bisognava “sporcarsi le mani” senza “compromettersi”. La differenza è sostanziale, e la critica più autorevole e influente del nostro Paese ha finito con il compromettersi. Conosciamo bene le lobby, le correnti di potere che hanno finito col condizionare definitivamente il sistema teatrale italiano. Ne potremmo comporre una mappa precisissima che tocca i maggiori centri di produzione della nostra penisola. La critica quindi, da un certo momento in poi, ha iniziato ad entrare nel gioco di potere, sostenendo spettacoli insostenibili, evitando di raccontare nel modo giusto eventi che si riteneva andassero comunque propagandati. Tutto questo non soltanto ha strangolato la libera circolazione del teatro, condizionandolo su linee prestabilite e gradite a vari critici in una pericolosa circolarità, ma ha fatto sì che il lettore non capisse più quello che stava leggendo, uscendo magari da uno spettacolo di lunghezza infinita e di noia incalcolabile e trovandosi a leggere che quello era un capolavoro assoluto della teatralità contemporanea, o assistendo invece a spettacoli notevoli magari di giovani gruppi, senza mai trovarne un accenno sulle colonne dei quotidiani nazionali.
Proprio perché il critico ha iniziato a fare altro,  ha contemporaneamente rinunciato a un linguaggio comunicativo e diretto per chiudersi in una criticità assoluta, riservata agli “addetti ai lavori”. Così il lettore oltre a non ritrovarsi nel giudizio non si è neppure più ritrovato nel linguaggio. Lo scollamento era inevitabile. Per dimostrare questo teorema basta veder cos’è accaduto alla critica cinematografica, per la quale questo ragionamento non sarebbe applicabile, e che, infatti, gode di ottima salute e alla quale il lettore fa appello costante.
Detto questo io credo fortemente che chi scrive su un giornale svolga un ruolo “politico” fondamentale, può indicare fenomeni nuovi, può suggerire nuove linee di riflessione, può segnalare e sostenere gruppi che sfuggono alle programmazioni ufficiali. Ma questo corrisponde allo “sporcarsi le mani” e questo lo si può fare con passione e decisione. Anzi proprio laddove il lettore riconosce un vero investimento ideale e culturale è disposto a condividerlo o comunque può essere incuriosito e incoraggiato a scoprire certi fenomeni.
Capitta: La sociologia ha preso spesso il luogo della critica, e non solo riguardo al teatro, ma al pensiero tutto. Difficile pronunciarsi, dopo che tutti abbiamo visto quelli che avebbero dovuto essere movimenti d’opinione e d’avanguardia e al più di mutuo soccorso, trasformarsi in congreghe corazzate volte alla conquista del potere, magari anche solo minuscolo e locale. Non credo personalmente che l’opinione giornalistica abbia un’influenza molto profonda sui lettori/spettatori, ma solo una “responsabilità” di partenza, che apre o opacizza, verso un oggetto scenico, l’eventuale curiosità di chi legge. Le conseguenze dello “sporcarsi le mani” (per quanto uno lo possa avere fatto correttamente e con tutte le garanzie del caso e della coscienza) oggi sono macroscopiche: articoli che sembrano comunicati promozionali o invettive ad personam. Spesso sono solo l’alibi per impedire di vedere i conflitti d’interesse su cui si fonda la nazione.


Hannah Arendt diceva che dalla ferita del giudizio “il vento del pensiero ritorna a spirare”. Critica e giudizio estetico sono stati a lungo concetti interscambiabili: la stessa aura di potere che continua ad ammantare la figura del critico amato-odiato (maledetto o blandito) dagli artisti discende, che lo si voglia o no, da questo ruolo censorio. Con il tramonto del cosiddetto “canone” (e persino del concetto di opera) anche il giudizio è uscito di scena e la scrittura critica ne è stata in qualche modo liberata. Sarebbe interessante sapere cosa lo ha sostituito. Se la critica non è giudizio, è legittimo supporre che essa sia diventata una forma di racconto?

Cordelli: Che la critica non sia giudizio mi sembra impossibile, una prospettiva che mi sento soltanto di rifiutare alla radice. Si può usare la forma del racconto, ma è un altro discorso: personalmente la uso e mi diverte, sicuramente mi rilassa di più che scrivere una recensione per così dire classica. Ma anche la forma racconto implica, soltanto in modo più indiretto, il giudizio e lo rivendico: rivendico la qualità, la funzione, la necessità del giudizio. Da qualche anno a questa parte, quando mi si rimprovera di aver dato dei giudizi troppo duri, rispondo che se non pronunciassi giudizi piuttosto duri chi fa delle cose belle non avrebbe il merito di averle fatte. Può darsi che sia un’idea gerarchica, ancora legata al canone. Ma è anche un’idea del valore, della qualità di un’opera. Io credo nella qualità e mi assumo la responsabilità di questa credenza, prendo il rischio. Se non mi assumessi questo rischio sarei soltanto un notaio e non ho alcuna voglia di fare il notaio.
Marino: Il giudizio è stato a lungo sostituito dal racconto (ma dite già tutto voi nella domanda). Oggi, in un’epoca dove tutto sembra equivalente a tutto, il giudizio tagliente torna a essere necessario.
Audino: Questo è il problema principale per chi scrive oggi. E’ indubbio che il giudizio sia una categoria fortemente fiaccata, e questo è un bene. Nessuno legge più per sapere cosa pensare, tantomeno per sapere cosa ne pensa di un dato fatto un determinato intellettuale,  e credo che sia inutile scrivere per consegnare ai posteri la propria ermeneutica rispetto a un prodotto artistico. Il fatto artistico è ormai post-moderno, questo stesso termine sembra ormai ovvio e usurato, ma comunque è il prodotto estetico che non può essere ridotto ad uno, che vive nella sua complessità di segni, nella sua espressione diretta che non necessita di decodifiche (si pensi al solo Castellucci). Ma la soluzione del problema è molto semplice. Io insisto nel pensare a un pezzo di teatro come a un qualunque pezzo giornalistico, e questo deve semplicemente contenere informazioni chiare su quello che è accaduto. Certo, siccome ci muoviamo su un terreno sdrucciolevole, la comunicazione è più complessa,  riferisce di un fatto sfuggente, che per essere compreso necessita di una disamina profonda. Dunque non è il racconto a risolvere il pezzo, semmai vale la pena di utilizzare lo spettacolo per trarne una suggestione, un pensiero che valga per chi ha visto lo spettacolo e per chi non l’ha visto. Mi interessa sapere cosa mi suggerisce in profondità, politica, umana, di pensiero, quello spettacolo. E’ naturale che per fare questo sia necessario avere delle strumentazioni critiche, ovvero dei livelli di competenza grazie ai quali chi scrive ha una maggiore facilità di comprensione, che può porre al servizio di chi legge. Ma questo, appunto, avverrebbe con un qualsiasi pezzo di politica, di economia, di cronaca nera. E poi quello che mi interessa veramente è capire quanto quello spettacolo entra dentro il senso della nostra società, questo mi piace scoprire e gettare come ipotesi al lettore, al quale cerco di fornire un’ipotesi, una suggestione per avvicinarsi a quel fatto. Io, ad esempio, utilizzo da lettore la critica d’arte con questo obiettivo, ricavare da una persona che ha più strumenti specifici rispetto a quel campo di creatività, un’idea che mi aiuti a concentrare il mio sguardo su quell’oggetto artistico e di quello che c’è intorno.
Capitta: Sì, si può dire racconto, anche per non far rivoltare Arendt nella tomba. Ma dipende poi quale racconto intendiamo: quello dello scrittore frustrato (o anche traduttore, accademico, illusionista o prestigiatore, certo di belle speranze giovanili) che sfoga in quel raccontare i suoi limiti e le sue sfortune, le sue memorie e le sue balle, il veggente o il saccentino che è in lui. Il “contenuto”, ovvero lo spettacolo di cui dovrebbe rendere cronaca, è spesso solo un pretesto, o poco più, o spesso meno. Spesso un’occasione poco valorizzata di approfondire un’emozione o un pensiero.


Dalla diffusione di massa del web molti si aspettavano una liberazione di spazi, di energie e soprattutto di linguaggi che fossero in grado di rinnovare la scrittura critica e l’interesse per il teatro. Cosa che almeno in parte è avvenuta ma con risultati tutt’altro che univoci rispetto alle attese. Considerate internet – e la critica on-line - un’opportunità creativa o avete l’impressione che la rete non faccia altro che moltiplicare l’autoreferenzialità e la marginalità dell’evento teatrale?

Cordelli: Non disponendo neanche di un computer penso di non poter dare altro che una risposta approssimativa e forse sbagliata. Mi colpisce la parola autoreferenzialità, pensando ad altre esperienze e a cose che mi raccontano altre persone e che riguardano altre forme di comunicazione globale che non sono la rete. Probabilmente questo elemento di autoreferenzialità, e quindi di appagamentoto, esiste e la rete lo alimenta e lo incrementa. Però, poiché come ho detto prima credo nella qualità e nel valore, sono convinto che alla fine la qualità e il valore vengano fuori. In questi ambiti c’è – chiamiamola così – una borsa valori metafisica e in essa sono iscritti i valori destinati ad emergere, quel che vale e quel che non vale, nonostante internet e anche per merito di internet.
Marino: Molta autoreferenzialità, che non è un delitto ma una specificità delle società complesse e specializzate. Molti nuovi spazi, possibilità, sperimentazione. Qualche invenzione.
Audino: Credo che internet costituisca oggi uno spazio alternativo alla pagina scritta del giornale, che appunto accoglie sempre più riottosamente la critica teatrale. Soprattutto perché consente a molti giovani di scrivere, e quindi mettere in circolo idee che altrimenti non verrebbero fuori. Io non sono un grande fruitore di internet, e quindi dovrei dire che il mezzo non mi appare attraente, ma credo che il numero di contatti di alcuni siti di teatro, compreso questo, dimostri il contrario. Se pensiamo poi che è il giornale cartaceo ormai ad essere in crisi non c’è dubbio che di questa nuova forma di diffusione sia di notizie che di pensieri bisogna assolutamente tener conto. E poi, visto che tutte le nostre ricerche passano per Google e che molti giornali (compreso il mio) non mettono le recensioni in rete, al momento in cui si facesse una ricerca su uno spettacolo le prime cose a venire fuori sarebbero proprio quelle su Internet.
Capitta: Il web ha liberato molte cose, compresa una certa incontinenza scrittoria, che si specchia nella labilità della committenza, Però ha anche sviluppato elementi molto positivi: in particolare, rispetto al teatro, la sua pubblicizzazione. Ma la caratteristica del teatro resta la sua fisicità, la sua corporale necessità. Non so quanto adatta a essere trasmessa via internet. Ma saperne di più fa in ogni caso bene.  Pronto a contraddirmi se penso nello stesso tempo a Tuttoteatro.com, che da luogo di recensioni si è incarnato nel concorso di gruppi concretissimi e promettenti.


Molte delle nuove opere prodotte trovano  regolare ospitalità in spazi extra teatrali, spesso occupati e autogestiti. Credete che una maggiore attenzione della critica, a cominciare da quella dei giornali, verso queste stagioni alternative possa sostenere la penetrazione della creatività indipendente nei luoghi del teatro ufficiale?

Cordelli: Questo è uno dei massimi problemi dell’espressione teatrale e non lo è da oggi: il problema degli spazi alternativi si è posto in modo radicale negli anni ’60 e ancora di più negli anni ’70. Poi,  quando qualcuno, all’inizio degli anni Ottanta,  ha proclamato che bisognava tornare a un teatro di parola, e per un ventennio questa è stata l’ideologia dominante della comunicazione teatrale, la sacralità del luogo teatrale è tornata di conseguenza a occupare un posizione centrale. Oggi mi accorgo  di nuovo che non è più così e, aggiungo io, per fortuna! Ho appena visto, qui ad Armunia, lo spettacolo di Maria Grazia Mandruzzato, che è un’attrice iconica del teatro di Thierry Salmon – un monologo ispirato alle Lettere di una novizia di Piovene – e mentre lo vedevo pensavo: amo da matti questo teatro fatto da una persona in un posto che non è un teatro dove sto seduto per terra e nessuno mi rompe le scatole…Mi auguro che il teatro sia sempre di più questo: un teatro breve, fatto da pochi e con pochi mezzi. Perché il teatro non costa nulla e non dà nulla sotto il profilo economico. Come la scrittura: non ci si mette a scrivere un libro per fare soldi (li si possono anche fare, ma non è scontato) ma perché si è spinti da una necessità. E così è per il teatro che amiamo, il teatro d’arte, il teatro poetico: chi lo fa  lo fa perché ne ha necessità.  E tuttavia anche questo amore non mi impedirà domani di andare a vedere un altro tipo di spettacolo, magari più tradizionale, in un teatro con tutti i crismi e di giudicarlo, se lo è, un capolavoro. Non è stato sicuramente il tradizionalismo del luogo a pregiudicare l’incredibile riuscita dell’Opera da Tre Soldi che Bob Wilson ha di recente messo in scena a Spoleto. Ci sono frontiere di sensibilità che sono cadute, semplicemente perché erano dei pregiudizi…Ricordo benissimo i tempi in cui opere come il Dottor Zivago venivano considerate ottocentesche e respinte in nome dell’amore che ci accomunava un po’ tutti all’epoca per la letteratura d’avanguardia. C’era gente capace di non leggere Il Gattopardo perché aveva vinto lo Strega. La verità è che Il Dottor Zivago o Il Gattopardo erano semplicemente due opere geniali. 
Marino: Il problema è finire nei teatri stabili? Rimarrebbe indipendente la creatività? La critica comunque aiuta la visibilità e la “promozione”. Gli operatori, in Italia, sono molto pigri, mediamente. Qualche spettacolo ha vissuto anche garzie alla “critica” (non solo le recensioni: la vittoria di rpemi, al presenza a rassegne e festival ecc.)
Audino: Sì. Non potrei rispondere diversamente visto che tutto il mio lavoro è stato impostato, almeno fino ad oggi, a segnalare quello che a mio giudizio è interessante, indipendentemente da dove queste realtà  trovassero ospitalità. Non amo citarmi, ma in un mio recente articolo segnalavo che le proposte più intelligenti e innovative del momento passano per sale “alternative” e sono del tutto ignorate dagli Stabili e spesso anche da quelli di innovazione. Spesso queste segnalazioni sono state raccolte da teatri importanti o da festival di rango, e questo credo sia una delle funzioni della critica e del giornalismo, non soltanto informare un pubblico possibile, non solo dar conto di quello che magari non tutti possono vedere, ma anche mettere in circolo informazioni “sane” indirizzate agli operatori.
Capitta: Quella della trasfusione (in senso letterale) di molta vitalità teatrale dai luoghi “alternativi” alle sale “ufficiali”, è non solo una speranza o una generosità, ma un’esigenza maledettamente urgente. Anche per costringere i nuovi gruppi a misurarsi con regole e linguaggi, le vecchie compagnie a una sana curiosità non necessariamente concorrenziale. E il pubblico abbonato e pigraccione a risvegliarsi prima della fine dello spettacolo per correre a prendere l’ultimo autobus.


In ultimo, vi rimandiamo la domanda che Chiaromonte poneva a se stesso nel 1961 e che abbiamo messo in epigrafe al nostro questionario. Anche se oggi, a partire dalla lunga militanza di ciascuno di voi sul fronte della critica, la questione va lievemente riformulata: vale ancora la pena  “di occuparsi di teatro in un paese  in cui il teatro sta morendo di inedia e, quel che è peggio, di umiliazione?”

Cordelli: E’ una domanda un po’ moralistica, come del resto era Chiaromonte. Il teatro muore di inedia per chi lo vede dall’esterno, dall’interno non muore. Quanto all’ umiliazione, se  prendiamo l’espressione come un giudizio politico  bisogna elaborare un giudizio politico complessivo. Altrimenti, come ho detto, è un giudizio moralistico e come tale lo rifiuto.
Marino: Oggi non è più solo la morte del teatro, il problema, ma l’agonia generale di una cultura critica, in un paese senza memoria, senza prospettive. Il teatro deve essere uno strumento della società per rappresentarsi, analizzarsi, mettersi in discussione, progettarsi, e la società, rinchiusa nella paura e nel pregiudizio, attenta solo a un precario benessere economico, non ascolta più – o ascolta distrattamente – i segnali che provengono dal teatro.
Audino: Sarebbe troppo facile rispondere che proprio per questi motivi indicati da Chiaromonte sarebbe ancor più necessario ed entusiasmante occuparsi di teatro. Rispolvero la mia teoria: il teatro è l’ultimo luogo in cui le persone si incontrano, vivono emozioni collettive, si scambiamo idee e parole, si confrontano direttamente con degli altri uomini che sono lì per comunicare con loro. E allora cosa c’è di meglio che occuparsi di teatro proprio in questo momento? E poi, per chi si occupa di questo da tanti anni cosa resterebbe da fare, passare le sere davanti alla televisione, andare più spesso al cinema, Scrivere d’altro?
Credo che invece, se riusciamo a resistere, i tempi cambieranno, forse subiremo esplosioni nucleari, saremo sterminati da guerre o epidemie, saremo umiliati e vessati dal potere e dalla politica, ma il giorno dopo la catastrofe ci ritroveremo tutti e, sicuramente, ci ritroveremo in un teatro.
Capitta: Per rispondere all’interrogativo di Chiaromonte 50 anni dopo: sì, penso che ne valga la pena oggi più di allora. In un paese che da “orribilmente sporco” “senza” è diventato dispersivo e insensato, senza identità e senza progetto, e per di più corrotto dalla politica di ogni colore, il teatro è una delle ultime boccate d’aria. Non perché sia particolarmente meraviglioso, ma perché ogni tanto quel paese riesce a rappresentarcelo in profondità e renderlo comprensibile, e a dipingerci dentro anche un’idea di vita e speranza, meno visibili a occhio nudo.
Il teorema di Chiaromonte vale ancora: quale vanità di critico saprebbe rinunciare al fatidico: “Eppure io vi dico che ai miei tempi….”.  L’orgoglio dell’archeologo ci salverà dalle cascate del ridicolo.

(nota: Tra i critici invitati a confrontarsi con le nostre domande c’era anche Franco Quadri di Repubblica, le sue risposte, tuttavia non ci sono state inviate)

* critico de “Il Correre della Sera”
** critico dell’edizione bolognese de “Il Corriere della Sera”
*** critico de “Il Sole24ore”
**** critico de “Il Manifesto”