Anno 1 Numero 29 Del 28 - 7 - 2008
Per farla finita con il gioco delle parti
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
«Voglio essere un bambino vero!»
Pinocchio

Questo numero ci è stato sollecitato da molti lettori, alcuni dei quali artisti. In sei mesi di attività sono arrivate diverse lettere che ci chiedevano ragione del nostro agire critico. Ma i soggetti di tale richiesta non eravamo solo noi e la nostra rivista, quanto, in un’ottica più larga, l’intero mondo che oggi si dedica alla riflessione militante.
La differenza in questo senso è uno strumento che si è voluto porre nei confronti dei lettori con una identità particolarmente chiara. La sua stessa costruzione settimanale, centrata attorno ad un tema sociologicamente estratto dalla realtà quotidiana, la connota come un luogo in cui la critica non è ospite, ma energia fondante. Per questo motivo abbiamo creduto che fosse giusto dedicare una intera uscita ad un’ipotesi di ragionamento sullo stato attuale della critica. Non tanto per esaudire una richiesta, quanto perché, dopo sei mesi di pubblicazioni volevamo “contestualizzarci”, tracciando – con l’aiuto di qualche stimato collega - i confini di un mondo entro il quale ci siamo proposti di stare. D’altra parte conoscere l’esatta collocazione dei confini ci permetterà di iniziare a forzarli, a sfondarli.

Abbiamo allora invitato alcuni rappresentanti del mondo della critica ad esprimersi. Nel farlo non potevamo evitare una certa parzialità dettata più dagli spazi disponibili che dalle intenzioni. E dunque crediamo che questo stesso focus da noi sviluppato possa essere solo il primo passo di una inchiesta destinata ad allargarsi per diventare esaustiva. Dal mondo della critica militante abbiamo puntato il nostro sguardo principalmente sullo spettacolo e sull’arte contemporanea. Leggendo le risposte ai questionari che abbiamo proposto ci si può rendere conto di come, in generale, i tre mondi che ruotano attorno al concetto della critica siano lontani da un reale dialogo. Ognuno chiede qualcosa che non è compreso fino in fondo nella risposta dell’altro. Gli artisti chiedono che il loro lavoro venga riconosciuto come azione critica e dunque come ragionamento di largo respiro che non si riduca all’oggetto artistico (per di più nella sua settorialità). I critici – specie quelli teatrali - chiedono che lo spazio del pensiero, con le sue specificità e diversificazioni, non sia ridotto alla periferia delle parole scritte sui giornali o spese nelle altre forme di comunicazione. Il pubblico (non tutto ovviamente), invece, si chiede su cosa si regga tutto questo baraccone di idee, riflessioni, azioni di cui si parla poco e si capisce meno.
Quello si capisce è che prima di tutto ci sono distanze da colmare.

Innanzitutto, dunque, crediamo convenga portare tutte le argomentazioni su un piano comune, quello di partenza, sul quale poggia il concetto stesso di critica. E conviene partire di qui, forse, perché, in fondo, apparteniamo tutti ad una generazione particolare, quella per cui la politica accade in televisione, per cui l’arte non si capisce, il teatro è morto, il cinema è diventato fiction televisiva e la letteratura è anacronistica. Una generazione che non ha confini d’età. Ne fa parte, attualmente, chi ha fatto il ’68, chi ha fatto il ’77, al pari dei loro figli. E’ una generazione che non ha un pensiero politico. Ha solo l’insopprimibile, primitivo, istinto di restare a galla. Che vota il partito che non gli piace perché comunque è l’unico che può andare al governo. Che, in fondo, butta via così la democrazia. Che tollera perché non ascolta e si colloca più o meno fieramente al di fuori della Storia.
Per questa generazione la critica è morta, fuori metafora, è finita. Eppure è proprio per questa generazione “neo-preistorica” che la critica oggi è necessaria come mai lo è stato, in quanto esercizio disciplinato del pensiero, come unico elemento che possa rendere possibile la riumanizzazione di una società omologata al nulla.

La critica per questa generazione è l’unico strumento per uscire dall’alienante e paralizzante sistema delle opposizioni, degli aut aut, in cui si riflette, nel suo piccolo, il bipolarismo politico italiano. La critica serve allora ad uscire da questi disperanti campi di concentramento del pensiero. Del favorevole o contrario. Dei sì o dei no da quiz della patente, per approdare all’analisi delle ipotesi e dei fatti, allo studio delle soluzioni possibili e degli errori che vi stanno nascosti, ad un movimento di pensiero che possa realizzare una dialettica con la realtà, che definisca con chiarezza analitica i rapporti di causa-effetto agenti quotidianamente nella società e che riconsegni al cittadino la possibilità concreta di incidere sulla Storia.

Ma perché tutto questo diventi una realtà concreta, al di là dell’ideologia di chi, come chi scrive, fa della critica un esercizio quotidiano, è necessario che sia la critica stessa, per prima, a doversi ricollocare sul proprio piano originario. Per farlo l’unica possibilità che ha è esplodere. Appunto uscire dai suoi confini, contaminarsi, togliersi le etichette e capire una volta per tutte che non ci sono separazioni. Che una compartimentazione del pensiero equivale ad una parzialità e dunque all’inattendibilità. Che non esiste la critica d’arte, la critica teatrale, la critica sociale, che non c’è differenza tra il pensiero critico che agisce nell’arte e quello che agisce nella riflessione che su di essa si fa. Entrambi sono solo il frutto della stessa realtà che condiziona gli esseri umani, tutti, gli artisti, i critici, i cittadini, determinandone le forme dell’espressione. La critica, di fatto, dunque, non è che la sommatoria delle azioni e delle parole che ognuno di noi si trova a tentare. Su queste dovremmo iniziare tutti a confrontarci. Senza gerarchie, primati o posizioni. In questo senso la critica diventerebbe qualcosa di trans-linguistico, in equilibrio tra l’azione, il pensiero, l’arte, la riflessione e le decisioni del quotidiano. In questo modo il pensiero critico finirebbe per liberarsi delle sue dogane e diventerebbe un sistema aperto (open-source) di confronto con la contemporaneità, capace di rovesciare la passiva accettazione delle condizioni date e intento a ribadire il ruolo centrale del cittadino (come elemento di molteplicità e diversificazione) all’interno della macchina democratica.

Il panorama che si delineerebbe seguendo quest’ottica sarebbe assai più dinamico che non quello attualmente vigente. E porterebbe sui quotidiani i giornalisti a parlare d’arte non solo nei ghetti maldestri delle pagine culturali, ma nelle prime pagine o nelle pagine della poltica, usando l’arte come metafora per farsi intendere. D’altra parte se l’arte è già azione critica, la critica d’arte che si limiti ad osservare l’oggetto artistico non può esser altro che ripetizione ridondante del già espresso. Ma si può invece parlare del diritto alla sanità pubblica partendo da Sicko di Michael Moore o della perversione dell’economia contemporanea citando l’Inventato di sana pianta scritto da Hermann Broch e messo in scena da Luca Ronconi. Si può fare tutto questo se si capisce che la critica è un’attitudine e non una specialità e che chi la fa per mestiere dev’essere capace di parlare a tutti, in primis ai più semplici, utilizzando l’impagabile risorsa che quotidianamente altri pensatori, dominatori di altri linguaggi, gli mettono a disposizione per farsi capire meglio.