Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 30 Del 15 - 9 - 2008 |
Cronache di un mondo perduto |
Dopo la presentazione al Festival di Venezia, torna al cinema “La rabbia” nella sola versione di Pier Paolo Pasolini |
Attilio Scarpellini |
«Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci».
(Pier Paolo Pasolini, Limitatezza della Storia e immensita del mondo contadino, 1974) Quante domande restano in piedi dopo aver visto-rivisto l’edizione reintegrata (o per usare il bel termine di Giuseppe Bertolucci “risarcita”) della Rabbia di Pasolini? Poche rispetto all’immagine, dove l’Europa alluvionata degli anni ’50 e ’60 si allontana nel tempo e forse neanche un volto tra quelli passati in rassegna – comuni o coronati, semplici o potenti – sembra riuscire a riaffiorare alla superficie di un disastro antropologico ben più travolgente di quello ancora naturale evocato all’inizio del film. La rabbia è un film di montaggio che oppone la poesia all’inchiesta (con tanti saluti, da lontano, a Michael Moore e alla pessima retorica di Fahreneit 9/11), lasciando che il testo, la voce – quella poetica di Bassani alternata a quella prosaica di Guttuso – strabordi oltre i confini delle immagini di repertorio, fuggendo e tornando per toccarle con il parossismo della visione, proprio come il riflusso di un’onda di piena: nessuna riattualizzazione è possibile nella tempesta di una profezia, perché la profezia è per sua natura rivolta al passato e alla diversità del futuro. La rabbia è per altri versi un film chiuso nella dialettica tra un eurocentrismo tardo, declinante, ferito a morte dal fascismo, e l’emergere di un terzomondismo ancora messianico dove albeggiano la speranza degli umili e la ferocia dei poveri: mentre scorrono le immagini di Bourghiba e di Nasser, del Congo appena decolonizzato, della mattanza algerina nel contrappunto del rombo di un aereo che scandisce un’invettiva contro la Francia (amatissima nei suoi poeti, persino quando Pasolini le ritorce conto il verso di Liberté, l’inno resistenziale di Paul Eluard) viene quasi spontaneo leggerle con la memoria rivolta ai Dannati della terra di Fanon. I diseredati dell’Africa e dell’Asia irrompono nell’apocalisse morale europea con la potenza di una natura che il neocapitalismo si appresta a rimuovere definitivamente (quanto prima dei Lyotard e dei Jameson, Pasolini ha intuito il carattere fatale di quello che chiamiamo postmodernismo…) ma nella controluce del loro insorgere, nell’innocenza fisica, musicale, delle loro esplosioni di gioia – nell’identità senza narcisismo che fa ballare una bambina tunisina il giorno dell’indipendenza nazionale – o nei loro corpi cristici, massacrati dall’alto dei cieli e lasciati a terra come cose, si sente già trasalire il lamento del poeta di Casarsa per la scomparsa dell’immenso mondo contadino di cui anche la cultura italiana faceva parte. Si rilegge questa o quella pagina, di dieci anni successiva alla Rabbia, dedicata al “genocidio della povertà” negli Scritti Corsari: “L’universo contadino (cui appartengono le cultura sottoproletarie urbane e, appunto fino a pochi anni fa quelle delle minoranze operaie…) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni (…). E’ questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a pochi anni fa che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile nei paesi del Terzo Mondo dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo)”. Senza questa chiave, del resto, riconnettere i fili della trama dialettica sottesa al film risulta quasi impossibile: l’atteggiamento di Pasolini rispetto all’insurrezione ungherese del 1956 sarebbe allora soltanto ambiguo, l’insistenza sulle images d’Epinal della Russia post-staliniana diventerebbe stucchevole (tanto più se commentata dalla voce di Guttuso), gli attacchi all’astrazione pittorica semplicemente reazionari, né mai si potrebbe comprendere il profondo parallelismo tra l’icona funebre di Giovanni XXIII, “pastore degli umili” che con essi condivide il “testone contadino” e la futura idea di una Chiesa divenuta inutile al Potere, perché estrema e contraddittoria rappresentante di un mondo per l’appunto preindustriale e premoderno. C’è invece una strana assunzione di responsabilità nelle parole che questo intellettuale disorganico, mai del tutto integrato non solo nel Pci (da cui venne espulso) ma nella linea ortodossa della cultura marxista italiana, dedica alla tragedia ungherese, quando fa affermare a uno dei suoi angeli fuori campo: “gli errori di Stalin sono i nostri errori”. Per quanto appaia paradossale, sono queste parole a denunciare l’assoluta estraneità di Pasolini al dispositivo di appartenenza organica ad un partito (o per converso ad una chiesa) che rispetto all’errore garantisce sempre una funzione salvifica: dopo il XX congresso del Pcus ogni comunista ortodosso era in realtà autorizzato a proclamare che gli errori (e gli orrori) di Stalin non erano i suoi, il partito li aveva condannati e scontati al suo posto (in seguito l’intero “errore comunista” darà luogo a una rimozione che permetterà ad alcuni di affermare che, pur militando nel Pci, si sono sempre sentiti estranei al modello sovietico). Per Pasolini, non diversamente che per Sartre nel medesimo periodo storico, partito e Urss sono legittimati dall’investitura affettiva delle masse proletarie poiché attraverso di essi queste ultime sono state simbolicamente iscritte in una Storia che congiurava invece alla loro cancellazione. Nelle Rabbia, le sequenze tratte dai cinegiornali sovietici sembrano dapprima puntare a un’edificazione – la Rivoluzione diviene Tradizione che salda la cultura dei padri contadini a quella dei figli operai finalmente alfabetizzati alla Storia – ma vengono bruscamente interrotte da un’accelerazione critica che ha un valore a un tempo etico ed estetico, dal momento che mette visivamente in discussione il concetto di realismo: all’idillio mistificato della pittura realista socialista russa si sovrappone il segno deforme, tormentato (goyesco) della pittura di Guttuso. Il realismo monumentale mente, lo stalinismo mente. La guerra avvolge il sonno della Ragione da cui tralignano le immagini della Rabbia. La guerra, cioè la modernizzazione. Restano, quasi ai margini del “discorso libero indiretto” che traduce l’intero film pasoliniano fino a entrare nelle immagini e a far vibrare il loro tempo, due gemme elegiache di pura e rarissima fattura: la prima, scandita dai versi che Pasolini dedicò a Marilyn Monroe dopo il suo suicidio, è uno struggente epitaffio della bellezza – di una bellezza salvifica, dostoevskiana – che sola restava “tra la stupidità del mondo antico e la ferocia di quello futuro”; la seconda è quella dettata dal respiro cosmico del discorso rivolto a Kruscev che Pasolini mette in bocca a Juri Gagarin dopo il suo viaggio nello spazio. Sono anche i momenti più intangibili del film poiché portano con sé l’essenza sensibile degli anni ’60, colta un attimo prima della sua trasformazione in mito, colta cioè nell’istante in cui il massimo della sua verità si declinava, e si dileguava nel bagliore della sua morte. Prima che la bellezza e la pace diventassero due retoriche, e nel breve tempo in cui la tecnologia apparve veramente come il compimento di una spiritualità universale, possiamo amare Marilyn, sorellina minore del mondo, senza serializzare il suo sorriso; possiamo credere che nel cielo nero trapuntato di stelle gialle, guardando la terra dal punto di vista della luna, Gagarin avesse davvero scoperto il segreto che rende gli uomini fratelli. Ma la stessa libertà di questo discorso ci è preclusa dal senso acuto della sua inattualità, dal coraggio improbabile che comporta la sua innocenza. Stretta tra una parte nuova ricostruita da Bertolucci guardando a ciò che Pasolini avrebbe potuto fare (se la produzione del film non gli avesse affiancato Giovannino Guareschi in omaggio alla logica “visto da sinistra, visto da destra”) e una terza parte che illumina la crudeltà, già all’epoca del film, dell’ “aria del tempo” attorno all’autore di Accattone, La rabbia è un’opera rivolta a ciò che sta dietro e a ciò che sta davanti a noi. Se ci sembra di non coglierla è perché siamo il risultato di quel che la ossessiona: la definitiva distruzione del suo linguaggio sentimentale, l’incapacità di pensare altrimenti che secondo l’esistente così com’è. |