Anno 1 Numero 31 Del 22 - 9 - 2008
Casca il mondo
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Questa volta la parola «boom» fa più eco al tonfo che all’esplosione. Uno schianto che tuttavia è meno imprevisto di ciò che sembri, o meglio, di ciò che si dichiari, perché, di fatto, segue una lenta caduta. La grande banca Lehman Brothers crolla per aver cercato di arginare, attraverso la concessione di mutui, la deriva delle economie private. Ma la cosa non poteva funzionare, ed anzi ha generato una contaminazione che ha mandato in mezzo a una strada (scatoloni alla mano) anche i manager e gli operatori che di solito siedono dall’altra parte della scrivania rispetto alla povertà. Dal marciapiede un po’ tutti ora alzando gli occhi vedono oscillare pericolosamente le torri della finanza sotto le scosse di un terremoto che vibra sotto i loro piedi e che minaccia di schiacciarli dall’alto.
Una crisi a effetto domino sulla grande e piccola economia globalizzata, che, tuttavia, non avrebbe, forse, una rilevanza tanto grande se non avesse come origine un luogo che è il centro non solo “tecnico”, ma anche filosofico del capitalismo (come a dire, che l’assedio del tempo e dell’usura - assai più pericolosi di qualsiasi esercito nemico - ha raggiunto il cuore della fortezza aprendovi crepe che ne palesano il decadimento). Il clima da New Deal, che si affaccia su Wall Street, è prodotto di un vento che in tutto il mondo tira già da qualche anno. E così è più di una coincidenza il fatto che mentre oltreoceano i listini si disintegrano, a Roma si prepari il World Social Summit, in agenda dal 24 al 26 settembre con le partecipazioni dei sociologi Anthony Giddens e Zigmunt Barman, gli economisti Jaques Attali e il premio Nobel Gary Backer, lo psicologo James Hillman, l’architetto Massimiliano Fuksas, lo scienziato Edoardo Boncinelli, lo scrittore Roberto Saviano, il magistrato Pierluigi Vigna e di altri protagonisti del pensiero. Tutti insieme per ragionare appunto su ciò che sta accadendo nel mondo, a partire dai segnali reperibili ben prima del terremoto newyorkese.

Uno di questi segnali è il rapporto del Censis, che sarà presentato per l’occasione e che, secondo le anticipazioni, stabilisce come Roma sia la città del mondo in cui si senta maggiormente la paura. Le percentuali, tra l’altro, non lasciano dubbi sul primato italiano che si staglia col suo 58% di cittadini spaventati dal presente e dal futuro, sul 36% (cifra, comunque, di tutto rispetto) che, in media, appartiene a città quali Londra, Parigi, Bombay, San Paolo, Mosca, Il Cairo, Pechino, Tokio e, appunto New York. Della minoranza di persone “ottimiste” fanno parte per lo più gli anziani, che d’altra parte in Italia sono un numero assai più cospicuo che nel resto del mondo (se non fosse così la nostra percentuale forse sarebbe schizzata chissà dove). Raccogliendo i dati delle interviste, ma anche semplicemente orientandosi, come ogni comune cittadino può fare aprendo un giornale o spendendo la propria giornata a parlare con il fruttivendolo, il tassista, il giovane turista ubriaco, c’è una verità lampante che emerge: la crisi che attraversiamo non è economica, ma di coscienza. Quello che sta crollando tutto intorno, infatti, non è che il sistema delle emanazioni, delle declinazioni che si proiettano esili da una matrice in crisi d’identità. Insomma, letteralmente, sta crollando il mondo.

Niente di nuovo allora. Ma niente che, arrivati a questo punto, si possa pretendere ancora una volta di confondere con il rumore di fondo. D’altra parte le torri di Wall Street erano precipitate al suolo già sette anni fa, lasciando una skyline composta da una sequenza continua di grattacieli ed orizzonti post-atomici. Chi conosce la Storia (e in Italia sembra quasi che non sia materia da scuola dell’obbligo) osserva con occhi da privilegiato e quasi da preveggente questa assoluta debacle epocale, conoscendo sin da subito la morale che andrà a tirare la favola. Ma non è detto che la storia finisca con una morale.  Ciò dipende dal fatto che i suoi protagonisti abbiano o meno imparato un insegnamento di cui ci parla la letteratura di un Paese che, per contro, oggi, mentre torna a schierare i propri missili a Cuba, sembra non aver ripassato il Novecento. La lezione determinante inizia ad essere scritta nel momento in cui si andava erigendo l’impero che oggi precipita ed ha il suo primo capitolo nella domanda che Dostoevskij è andato componendo, durante tutta la vita, lettera per lettera, romanzo dopo romanzo, avvertendo la necessità di sapere «che ne è dell’uomo quando tutto intorno a lui è finito». E’ questa l’eredità del grande teologo delle profondità umane. Una questione estremamente attuale cui l’autore dei Karamazov e dei Demoni non è riuscito a dare risposta. Per averla bisognerà aspettare un secolo, e che la crisi di un’identità, allora solo prevista, si conclami. A metterla per iscritto sarà allora, negli anni ’60 e ’70, Alexander Solzenicyn, scomparso quest’estate. La sua risposta in un panorama del tutto simile a questo, se non che traslato su un altro piano, è chiarissima, disarmante, come il bambino che grida “il re è nudo”. Il suo discorso non si pone in una relazione diretta con l’antenato eccellente. Solzenicyn, come i bambini, nemmeno si cura dei ragionamenti dei grandi e santi (letterariamente parlando nel caso di Dostoevskij), semplicemente nomina con esattezza le cose senza avere bisogno di spiegarle, di contestualizzarle, le espone nella loro platonica naturalezza, nella loro primitività. Quando tutto è finito resta l’uomo, perché egli preesisteva al tutto, alle sue molteplici circostanze, alle strutture e alle sovrastrutture. L’uomo è l’elemento primitivo e irriducibile, l’origine della spirale. Ogni pagina della sua letteratura ne è esempio, a partire dal suo primo romanzo, nell’episodio in cui Ivan Denisovic, in un giorno senza data, sperso nella sconfinata taiga di concentramento, esce con quaranta sotto zero per costruire coi suoi compagni di pena un inutile capannone in mezzo alla neve. Alcuni hanno la febbre, come Ivan, altri semplicemente sono stremati dalla denutrizione e dalla mancanza di senso di tutto quel deserto in cui ognuno di loro, singolarmente cerca strenuamente di mantenere la propria dignità umana, intatta, come un diamante che spicca nel ghiaccio. Alla fine della giornata, rischieranno di farsi fucilare, per non voler smettere un lavoro che per via di una strana combinazione di sincronismi e di coordinazioni, li ha fatti sentire tutti di nuovo parte di una comunità, l’unica cosa viva nell’intera sconfinata Russia.

Quando tutto è finito resta ancora l’uomo, ossia l’origine di tutto, il punto di ripartenza inannullabile. Questa è la lezione di Solzenicyn. La lezione da cui discende questa rivista e molto altro. Quella di non arrendersi, di non avere paura delle conseguenze. Ma perché la paura e l’incertezza svaniscano, perché ci sia di nuovo una morale, una morale da tirare, è necessario che l’uomo si riappropri di ciò che da qualche tempo sembra aver smarrito: se stesso.