Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 31 Del 22 - 9 - 2008 |
Waste land |
Di cosa si parla in Italia mentre si tagliano i fondi alla cultura |
Attilio Scarpellini |
Tra i tanti indici finanziari americani che la settimana scorsa hanno preso ad oscillare vorticosamente come aghi di un sismografo ce n’è uno che oscillava già da un po’: lo chiamano “l’indice della paura” e misura il grado di volatilità delle aziende finanziarie. La cultura italiana non ha avuto bisogno di un misuratore statistico per cominciare ad aver paura della sorte che il governo Berlusconi intendeva riservarle, le è bastato fiutare l’aria e interpretare gli evangelici segni dei tempi. Così, volendo, si poteva capire molto dall’intervista che Maurizio Costanzo, padre spirituale della Tv commerciale, ha rilasciato tre mesi fa a un quotidiano romano nella sua veste di neo-consigliere per gli affari teatrali del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi: l’idea che l’intero orizzonte dell’espressione teatrale italiana potesse raccogliersi tra un polo professionale, ormai esaurito dalla fiction televisiva – dove le migliori energie attoriali si concentrano secondo Costanzo – e un polo pseudo-spontaneistico costituito dall’unione sublime tra le feste di paese e le filodrammatiche, spazzava via in un solo colpo il teatro d’arte in tutte le sue forme e con un’arroganza che si spingeva fino alla negligenza non degnandolo neanche di una citazione. La tv più la sagra popolare potrebbe dare come risultato La festa del Paparacchio di Andrea Cosentino, ma bisognerebbe poter ammettere che il teatro esercita ancora un potere di decostruzione su una realtà che, lungi dall’essere spontanea, si presenta già in forma di spettacolo, già filtrata dai media. E’ La festa del Paparacchio che in realtà demistifica in anticipo l’idea costanziana di autenticità. L’uomo di Buona Domenica, invece, parla spudoratamente di memoria e di tradizione (un po’ come i vecchi maiali, giunti al crepuscolo della vita, parlano sempre d’amore), cita Pasolini (ed è la vittoria simbolica più estrema, più beffarda che si possa immaginare quella che recupera il poeta delle Ceneri di Gramsci alla prospettiva da cui si proclamava ucciso) e infine, dopo aver preventivamente dichiarato l’amore che vota al teatro (come dubitarne, dal momento che ne dirige due o tre?), lo elimina come un terzo escluso tra il massimo della simulazione e il massimo della “vita”. Per Maurizio Costanzo il teatro non è un segno, un linguaggio, è tutt’al più una situazione. Primo segno dei tempi: non l’arte ma l’intrattenimento è il metro di valore dello spettacolo dal vivo. Ma ora che il liberismo regredisce nelle lancinanti contraddizioni della sua ideologia naturalistica, non è più tanto il mercato a costituire il giudizio ultimo delle forme artistiche quanto il popolo, cioè l’idea televisiva di popolo (cercate dalla parti di Tremonti il vero guizzo di intelligenza di questa vulgata che sul versante economico sta per produrre un nuovo “socialismo della cattedra” utilizzando l’aspetto identitario della critica alla globalizzazione). Secondo segno: non passa un’estate senza il temporale di una polemica inutile e la più sapida dell’estate appena trascorsa parlava di soldi pubblici e di arte contemporanea, di senso del pudore e di sentimento del bello. Raggiunto nella sua residenza dolomitica dalla diatriba sulla rana crocefissa di Martin Kippenberger esposta al Museion di Bolzano, il ministro Bondi metteva in discussione l’opportunità di finanziare con denaro pubblico forme d’arte che, oltre a ferire con i loro atteggiamenti provocatori il sentimento religioso popolare, riscuotono scarso interesse da parte del pubblico come Manifesta, la settima edizione della biennale trentino-altoatesina. In due distinte dichiarazioni, Bondi, che decisamente non è André Malraux, affondava con un candore pieno di voluttà il dito nella piaga del contemporaneo: la prima dichiarazione era liberatoria perché il ministro ammetteva di non capire nulla (al pari di molte altre persone, soggiungeva) delle produzioni artistiche contemporanee; la seconda era discretamente prescrittiva, perché Bondi, dopo il dovuto omaggio alla libertà della creazione artistica, vi esprimeva il desiderio che «le istituzioni pubbliche o comunque le istituzioni finanziate dal pubblico non esaltassero soltanto l’arte della dissacrazione, dell’inutile provocazione e del non senso, perché l’arte è anche ricerca della bellezza e del significato». Ora, fermo restando che il ministro Bondi ha talmente mal compreso il genere “arte contemporanea” dal non rendersi conto che è proprio l’eccesso di significato a funestare molte delle sue espressioni; fermo restando che ciò che si racchiude sotto la definizione di “contemporaneo” ha espresso finora la più smaccata equivalenza con la trasgressiva effervescenza del capitalismo globale, l’antifona è tristemente chiara, come lo era appena un mese prima quando lo stesso ministro insorgeva contro il finanziamento pubblico concesso a un film sulle Brigate Rosse non in linea a suo dire con quello che dovrebbe essere il pensiero unico sul terrorismo italiano. Una sorta di stato minimo etico si sta affacciando sulle nostre vite per rimpiazzare il vecchio laissez faire e la cultura, se non nei ranghi delle sue inclusioni – la destra non aveva e continua a non avere alcuna idea in proposito – è richiamata dentro gli angusti confini delle sue esclusioni. Dagli al sessantottino, allora, evocato per ogni dove quando gli uomini della destra sono a corto di argomenti (cosa che accade talmente spesso che lo spettro del ’68 si aggira ovunque: nel ringhio di Larussa contro chi critica l’esercito nelle strade, nelle balle spaziali della Gelmini, nelle interviste di Tremonti al Corriere…) Il vero guaio di questo ritorno all’ordine è che, a differenza di altri modelli del passato, non ha alcun ordine a cui tornare, se non un ordine degradato, contaminato, disperatamente compromesso con il disordine che lo minaccia. A qualcuno, come Marcello Dell’Utri, è anche venuto in mente che la destra italiana debba attrezzarsi a fare quello che non ha saputo fare negli anni scorsi, esercitare una vera egemonia culturale. Ma, giunto al dunque delle modalità in cui instaurare questa egemonia, lo stesso Dell’Utri non è riuscito ad andare al di là dello strumento più vecchio della cultura di destra: la lista di proscrizione. Il modello Alemanno a Roma, per il momento, non si spinge più in là del piazzare croci (celtiche, la battuta è troppo facile per non farla) sopra gli obelischi del veltronismo. Soltanto Giulio Tremonti, ancora lui, immagina qualcosa: di utilizzare la crisi e le paure che produce come un linguaggio che da un’economia moralizzata (ma dall’alto) si travasi in una cultura restaurata nelle sue forme classiche, antropologicamente solide. Il dosaggio dei tagli nei diversi settori – a cominciare dalla scuola, il più cruciale nella formazione del consenso - è lo strumento chirurgico di questa trasformazione della quantità in qualità basata sulla convinzione che la recessione, la paura, l’impoverimento parlino da sé e da sé possano riprodurre il mondo perduto delle essenze e dei valori che si nasconde nell’espressione “economia reale” (di contro a quella perversa, virtuale e liberoscambista). |