Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 32 Del 29 - 9 - 2008 |
Le due città |
“Contro l’architettura” di Franco La Cecla, un pamphlet sull’attrito tra antropologia e arte di costruire |
Attilio Scarpellini |
«Essere moderni vuol dire diventare l’alleato dei propri affossatori» (Milan Kundera) «Essere contemporanei significherebbe oggi prendere sul serio la catastrofe imminente (…)» (Franco La Cecla) Contro l’architettura di Franco La Cecla non è un libro per turisti, ma si muove in continuazione, si scrive nelle pause tra due viaggi che si intersecano: uno è una sortita nell’identico della città globale, ieri squadrata dalla geometria della “dura modernità”, oggi uniformata dal segno di un’architettura-spettacolo, preferibilmente bidimensionale, che ovunque impone la sua griffe, nel tentativo di vincere un’estenuante lotta con lo spazio e con la storia; l’altro è un excursus nella diversità delle città singolari – San Francisco, Tirana, San Pietroburgo, l’amatissima Barcellona – che dalla smaterializzazione del brand ripiomba felicemente nello spazio vissuto e vitale della strada, nella pratica sociale e irriducibilmente affettiva della città. In diverse città o nella stessa, come a New York dove lo sguardo si sdoppia: dalla metropoli antisociale plasmata senza posa dagli “archistar” che la considerano un prodotto, mentre Manhattan si avvia a diventare “una piattaforma costellata di monumenti architettonici da consumare come l’intero sistema di shopping a cui New York sembra pericolosamente avvicinarsi”, svoltata una via, si scivola in quella “vecchia di stratificazioni” (ottocentesca, neo-egizia, decò, liberty) che continua a premere, a lottare, dal basso dei marciapiede, per riportare la vertigine del grattacielo nell’orizzonte della strada, per non svanire nella vibrazione di un’immagine che si vende bene – al turismo globale gratificato dalla sua modernità – ma non può essere abitata. Così due città, una flesh and stone, votata alla materia, alla prossimità, alla resistenza umana – l’altra lanciata sulla china dell’evanescenza dell’economia virtuale – si inseguono ma, come Achille e la Tartaruga, sembrano destinate a non raggiungersi. Quando la seconda, carica di soldi e di potere, cala sulla prima, la svuota, la umilia, la isola, come accade col progetto di allargamento della Columbia University (potentissimo ateneo in prevalenza bianco) che, nato all’insegna della riqualificazione urbana, tracima su Harlem (storico quartiere nero ed ispanico) cancellando vecchie botteghe ed espellendo migliaia di residenti. Simili e diverse come persone, le città, dice La Cecla, “sognano altre città” e per restituire loro un senso bisogna sapersi smarrire nella trama romanzesca in cui le loro differenze si guardano e di pietra in pietra si richiamano, vedere “Venezia che sogna Istanbul che sogna Mosca”: la forza (la serena forza critica) di Contro l’architettura deriva dalla sua capacità di far discendere la critica dal romanzo (il primo autore citato, non a caso, è il Pamhuk di Altri colori) e il romanzo dal passo trasognato del flaneur. In un senso, questo libro di un centinaio di pagine che si presenta come un pamphlet è quanto di più simile a Immagini di Città di Walter Benjamin sia stato finora prodotto in Italia. Nell’altro, è una disanima spietata della sconnessione attuale tra la pratica dell’architettura e la realtà dell’abitare così come le ultime riflessioni di Virilio, di Baudrillard, di Nancy lo sono sull’autoreferenzialità dell’arte. Con la differenza che il potere che i Rem Koolhaas, i Frank Gehry, i Massimiliano Fuksas (e la meno star di tutti i progettisti, il più geometra di tutti gli architetti) esercitano sulle nostre vite è incommensurabilmente maggiore di quello esercitato dai Cattelan o dai Pistoletto. Perché come dice Robert Byron – il Virgilio di La Cecla – «gli edifici sono sempre con noi. La democrazia è un fatto urbano, l’architettura è la sua arte». Dipende, insomma, da come si sceglie di leggere Contro l’architettura: dal punto di vista del sogno, o da quello dell’incubo. Anche se per lo più si tratta, modernisticamente, di sogni che sconfinano nell’incubo: apparentemente divagante, l’allure dell’autore di Perdersi, lascia trasparire a ogni stazione l’architettura di un pensiero che sull’architrave dell’abitare, inteso non come consumo privato ma come bisogno di cittadinanza, misura i fallimenti utopici dell’ingegneria sociale anni ’60 e i trionfi effimeri del postmodernismo, la bruttura dell’ideologia e il cinismo dell’estetizzazione, la ville radieuse di Le Corbusier e la rarefazione mercantile di una progettazione convertita all’advertising e alla moda. Inferno solido, di vere fiamme: le banlieues parigine che, esplodendo nel 2006, rivelano (come la casa kafkiana che, per essere vista, deve bruciare nella notte) la profondità di un orrore sociale legato a doppio filo alla loro discriminante bruttezza di utopie funzionali a un pensiero che pianifica l’aggregazione sociale ma finisce col costruire la segregazione urbana. Inferno soffice: l’architettura che sposando la bidimensionalità, il design, il cinema, perde la sua “concretezza volumetrica” (la sua responsabilità), rende l’anima allo spettacolo delle merci (gaudioso, come già lo immaginava Debord) e volta le spalle alla città e alla sua (in)vivibilità. Un movimento che, per inciso, riproduce lo stesso stacco che dall’economia reale porta a quella virtuale, lasciandosi dietro le spalle il famigerato “valore d’uso” (tranne a non ritrovarselo davanti, sotto forma di maceria, di rifiuto, di nuda vita nell’avanzare di quella periferia globale che dalle bidonville dell’Asia e dell’Africa stringe d’assedio il mondo). Ora che nei buchi neri del capitale finanziario la volatilità del valore di scambio vola a rovescio, cioè precipita, sarebbe interessante sapere da La Cecla quale destino si prepara a quelli che Gabriella Lo Ricco e Silvana Micheli hanno battezzato archistar. Nella controluce delle sue città-narrazioni, concrete e brulicanti, quasi sempre riversate sulla strada, mai del tutto afferrabili dall’ occhio vitreo del formalismo architettonico – dotate di una forza che più che storica sembra immemoriale – si staglia puntualmente l’ombra dell’anticittà corrispondente. C’è quella come New York che nella sua accumulazione di potenza distrugge o chiama la distruzione (esemplari le due pagine che ruotano attorno all’afasia simbolica della ricostruzione di Ground Zero). Ma c’è anche quella come Palermo, che nella propria mediatizzazione tenta di far scomparire per incanto la propria miseria. «Milano e Palermo e Napoli sono modelli forse ancor più avanzati di Bangalore, perché rappresentano il dissolvimento della città come entità fisica e la sua sostituzione (in presenza agonizzante della città) con un suo simulacro vendibile. E’ l’Italia come luogo di un capitalismo dell’immagine che della rivoluzione informatica ha preso non il potenziale di connessione con il resto del mondo ma la riduzione brutale della realtà a un surrogato mediatico». I telefonini come indici berlusconiani della modernità italiana non sono lontani, ma anche la politica degli eventi – purché grandi – sub specie riformista: solo la realtà del territorio è lontana da questo sguardo deviato che transustanzia le macerie della vita in capitale simbolico e fa risorgere città nel balenio di una parola – purché dettata da un pubblicitario di grido: “Palermo è cool”. No, Contro l’architettura non è un libro per turisti. E’ un libro per flaneurs e per rivoluzionari. Un libro per chi ha voglia di tornare, fisicamente, in strada. In libreria: Franco La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Milano 2008, pp. 117, 12 euro |