Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 32 Del 29 - 9 - 2008 |
Jurassic Park |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
Il colpo d’occhio è immediato e impietoso camminando per i padiglioni nazionali dell’XI Biennale d’Architettura. Quello italiano differisce da tutti gli altri. Riconversioni di ecomostri, edilizia-bricolage per famiglie rom, “progetti” per palazzi energeticamente autosufficienti, e tutt’intorno i muri tappezzati di fogli di giornale che raccontano un Paese in cui la vivibilità è ancora conflitto. Il padiglione italiano è l’unico dal piglio così smaccatamente politico. E visto dall’interno, se fosse stato costruito chissà dove come una mostra sull’abitare lo avremmo trovato puntuale, attento, propositivo, in una parola, contemporaneo. E invece no. E’ proprio il contesto a rivelarne l’anacronismo, l’arretratezza, non sua, ma del suo oggetto di studio, l’Italia. Il nostro padiglione nazionale è l’unico che non ha dato per scontato ciò che altrove è acquisito ormai da decenni. Forse solo il Venezuela, tra tutti gli altri, coi suoi tazebao per un’architettura responsabile, ha fatto assaporare quel gusto retrò da anni Sessanta, che in casa nostra sembra non essere mai del tutto passato. Situato negli spazi dell’Arsenale l’esposizione curata da Francesco Garofalo sembrava il mercatino dell’usato europeo, in cui facevano lividamente mostra di sé modellini che altrove sono già storia. Paesaggi plastici che per noi restano un traguardo ancora quasi utopico e che appunto si mescolano con le utopie assai più avanzate di Giappone, Germania, Corea, Francia. Tutte, per assurdo, assai più concrete delle nostre in quanto a raggiungibilità. La scelta nipponica di chiudere il discorso con la costruzione per dedicarsi all’ordine della natura, infatti, non è, a ben vedere, una posizione drastica, ma riflette un atteggiamento radicale dell’architettura giapponese i cui morfemi, tradizionalmente, coincidono con quelli delle piante, delle rocce, della terra. E lo stesso può dirsi per il padiglione tedesco, brillantemente intitolato Updating Germany, e orientato ancora ad una integrazione totale tra i processi costruttivi e quelli naturali. Proposte e ipotesi che non potrebbero sussistere se non dando per scontato ciò che invece noi cerchiamo di sottolineare come obiettivo necessario, o peggio, come auspicio: un’architettura responsabile, ecologicamente sostenibile, energicamente autosufficiente, ad alta vivibilità. Un confronto impietoso, che tuttavia è destinato a ripetersi agli Oscar tra qualche mese, dove tra i molti film in concorso ci sarà il nostro Gomorra, una storia vera ambientata in un quartiere vero di Napoli, Scampia, buco nero nel corpo dello Stato. E di questi buchi ce ne sono parecchi in Italia. Buchi che assomigliano a quella Città involontaria di cui scrive Anna Maria Ortese nella cronaca letteraria di una sua visita al III e IV Granili, un caseggiato popolare nella prima periferia napoletana del dopoguerra. Il suo viaggio assume, man mano che procede, i tratti di un altro più famoso pellegrinaggio della nostra letteratura, anch’esso metaforico, anch’esso reale con le sue migliaia di riferimenti a nomi e fatti dell’Italia prerinascimentale. Il viaggio della Ortese, a differenza di quello dantesco, va dal basso verso l’alto. Dai piani terreni e i primi piani, abitati da esseri storti, pazzi, coi tratti zoomorfici, ai piani più alti, dove arriva la luce del sole e quasi s’ignora la disumanità delle calate, sembra tuttavia trasmettersi la stessa epidemia, che Dante identifica con la dannazione, ma che nel 1953, quando la Ortese pubblicò Il mare non bagna Napoli (volume che contiene il racconto, oggi riedito da Adelphi), non poteva che perdere ogni riferimento religioso. E allora, il suo narrare spoglia di metafore l’inferno suo e quello dantesco definendo la dannazione col suo vero nome: italianità. Una epidemia endemica che ha come sintomi l’impermeabilità al progresso. Nel 1953, quando Anna Maria Ortese scriveva il suo libro, il III e IV Granili erano già una sorta di grande rudere storico, un dinosauro quasi scheletrito arenato contro il fianco del Vesuvio. Nel 2008, quando Matteo Garrone filma il suo Gomorra, le “Vele” di Scampia (costruite vent’anni dopo il racconto della Ortese e divenute a loro volta una città involontaria) ci appaiono, attraverso la pellicola, come un ulteriore scheletro giurassico, invaso da una vita quasi batterica che ne ammanta le ossa. Nello stesso momento, oggi, mentre scriviamo o leggiamo, intorno alle nostre città, intorno a Roma (ne abbiamo parlato in più occasioni), si stanno costruendo altri grandi ruderi dell’edilizia popolare a capitale privato, in cui confluiranno decine di migliaia di italiani, affetti da quell’epidemia di primitività e che pagheranno un mutuo vitalizio per poter andare a fondare una nuova città involontaria, distintamente scollegata dal progresso e assai meno prossima al concetto di contemporaneo che non a quello pasoliniano di Nuova Preistoria. Un panorama che a ben vedere non differisce troppo da ciò che l’Italia è da sempre, ossia il più grande deposito di rovine della civiltà, un enorme parco a tema archeologico, i cui abitanti non possono far altro che replicare ciò che da sempre hanno abitato, vissuto, attraversato: carcasse di luoghi di cui non abbiamo mai conosciuto la grazia vitale e che abbiamo sempre percepito come scheletri, non troppo dissimili a quelli dei dinosauri che continuiamo a costruire, i cosiddetti ecomostri, quelli che Kinkaleri, assieme all’intera comunità reggiana di Felina, si divertì a far esplodere qualche anno fa in una irriverente “tombola” (www.kinkaleri.it/bingo.htm) o quelli che, proprio nel padiglione italiano della Biennale, lo studio Albori di Milano (www.albori.it) prova oggi ad “addomesticare” trasformandoli in ulteriori utopie abitative sostenibili. |