Anno 1 Numero 33 Del 6 - 10 - 2008
Il paradosso dell’anello debole e del “patto d’acciaio”
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Questo numero de La differenza potrà forse sembrare autoreferenziale ai nostri lettori. Si parla principalmente dei tagli alla cultura in conseguenza dei quali molti lavoratori si troveranno disoccupati (noi saremo tra quelli) e molte esperienze di grande valore artistico e non solo dovranno cessare di avere un confronto costruttivo con i cittadini.
La data in cui ci accingiamo a compiere la seguente riflessione non è casuale. In questi giorni, dopo una confusissima estate di botte e risposte sulla necessità di ridurre il contributo pubblico al mondo della cultura, stanno viaggiando nei sacchi delle poste italiane le lettere in cui il governo centrale comunica alle amministrazioni regionali (e di conseguenza a quelle provinciali e comunali) che il Patto Stato-Regioni viene rotto.
E ciò non avverrà secondo la naturale decorrenza dei termini previsti dalla riforma introdotta nella passata legislatura, ma si interromperà al secondo anno dei tre previsti.
Ciò comporta, dunque, non solo un problema di ordine ideologico, etico, ma anche pratico: gli impegni già presi dagli operatori grandi e piccoli coinvolti nei progetti legati al Patto non avranno copertura finanziaria. Detto in parole povere, i contratti già redatti non saranno onorati.

In un momento come questo, di crisi economica internazionale e di enorme recessione, la soluzione di “tagliare la spesa” rendendo carta straccia i contratti di un numero assai rilevante di lavoratori, non sembra forse l’idea più brillante che potesse venire ai nostri strateghi economici. Certo, i cosiddetti “esuberi” nel settore della cultura fanno molto meno rumore di quelli di Alitalia o del settore scolastico. D’altra parte attori, direttori artistici, registi, critici, tecnici, autori, organizzatori, sono figure che non hanno mai avuto vere tutele sindacali o una legislazione che ne definisse con chiarezza doveri e diritti. Il mondo della cultura è una galassia semisommersa, fatta di ingaggi “a prestazione” che – quando non sono “a nero” - non estendono alcun tipo di garanzia oltre il periodo di attività prevista. Il settore della cultura è dunque un settore di esuberi permanenti, di precariato costante. Non ci sono contratti “di ferro”, non c’è neanche una vera e propria “classe” con tanto di coscienza di sé. E dunque tutto può passare sotto silenzio. Giacché tagliare la cultura non corrisponde ad una vera infrazione delle regole.

Eppure la questione, in concreto, è assai diversa. L’Italia, infatti, ha un Pil la cui percentuale maggioritaria è legata al settore culturale della nostra economia. A pensarci bene in effetti il Bel Paese si chiama così perché non ha risorse minerarie, petrolifere, gassose, non ha una vera industria pesante, e non ha neppure una eccellenza nelle nuove tecnologie. L’unica vera grande industria italiana è quella culturale da cui il “Bel” che si antepone a “Paese”.  Se così non fosse, se Roma somigliasse a Detroit, se la campagna toscana avesse l’aspetto di deserti libici, o se nei musei di Firenze ci fossero gli stessi dipinti presenti nelle collezioni australiane, forse l’Alitalia (per dirne una) avrebbe un fatturato assai più risibile. Allo stesso modo, se non avessimo stilisti o designers, il cui lavoro non fosse tanto inscindibilmente fuso col concetto di arte, forse la nostra industria sarebbe un inutile rottame al confronto delle fabbriche seriali della Cina o semplicemente della Romania (di cui l’Italia è primo partner economico).

Ma non è così. Roma è una sorta di miracolo che pur deturpato continua a richiamare milioni di turisti e di investitori da tutto il mondo, le nostre campagne (alcune delle quali in mano alla malavita organizzata ed al degrado) restano le più belle del mondo, le nostre collezioni d’arte fanno sì che anche nella chiesa più sperduta si possa trovare un Piero della Francesca. E poi è anche vero che nessun paio di calzoncini della Nike possa esser messo a paragone con la creazione di uno stilista italiano, come anche è vero che nessun teatro al mondo ha una concentrazione di artisti geniali come quello italiano (l’unico in occidente a non essere regolato – e tutelato - da una vera legge). Tutto questo fa la differenza. Tutto questo fa sì che nelle casse del nostro Stato ogni anno finiscano miliardi di euro in una spirale connettiva che partendo dalla cultura investe molteplici imprese (non solo del terziario) che ad essa sono connesse.

L’Italia dunque ha una risorsa sicura ancor più del petrolio, poiché inesauribile. Eppure, da decenni si continua, a far finta che tutto ciò sia superfluo, anzi sia “il superfluo”. E allora si taglia. E tanto si è tagliato che alla fine si finisce sempre a parlare di moda perché è l’unico settore culturale esclusivamente privato e non soggetto ai tagli delle economie pubbliche. Un settore dell’arte e della cultura contemporanea che ha una sua economia forte perché indipendente. Negli altri settori, quelli in cui l’intervento istituzionale diventa decisivo, la cultura contemporanea è stata falcidiata fin nelle radici più salde. Il teatro contemporaneo è rimasto solo quello che si fa nelle moderne cantine. Non c’è una sola mostra italiana – anche tra quelle che vedono protagonisti grandi pittori del Rinascimento – che possa reggere il confronto con quelle organizzate negli altri paesi europei o negli Stati Uniti.  Lo studio dell’antica Roma nelle nostre università è di livello estremamente inferiore rispetto a quello degli atenei americani. Non c’è un solo museo d’arte contemporanea in Italia che possa proporre una progettualità valida come quella di molti altri musei internazionali. Dopo De Sica (Vittorio), Rossellini, Anotonioni, Fellini, e molti altri maestri, il cinema italiano non è ancora diventato un’industria e continua a sopravvivere grazie ai guizzi di autori geniali che ogni tanto riescono a fare un film.
E allora non stupisce se il cinema quest’anno vedrà dimezzarsi i propri contributi chiudendo nel baule definitivamente il sogno di un “risorgimento italiano” (come ha osato scrivere il sito della CNN dopo i successi internazionali di quest’estate).

Così stanno le cose. L’Italia non ha più una cultura contemporanea. Non ha più un tessuto in cui possano proliferare dibattiti, opinioni, artisti e intellettuali. Ma per chi non sia affetto dalla (falsa) miopia dei governanti, è molto chiaro come senza un presente della cultura si perdano anche i ponti con il passato e con il futuro.
Se i principi del Rinascimento non avessero finanziato gli artisti, cosa ne sarebbe di noi ora? Se continuiamo a tagliare, oltre la tabula rasa del contemporaneo, cominceremo a chiudere anche gli Uffizi o il Colosseo? Non sono domande retoriche. Chiunque può rendersene conto verificando oggi stesso quanti siti archeologici di valore immenso o collezioni antiche, mentre noi stiamo scrivendo, restino permanentemente chiusi, come appunto vecchi ruderi o come magazzini pieni di cianfrusaglie.