Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 35 Del 20 - 10 - 2008 |
Soccombenti |
Il sangue di Kirk Stephenson e di Khartik Rajaram. Ovvero l'altra faccia del denaro |
Attilio Scarpellini |
Una vittima illustre: Kirk Stephenson, 47 anni, rampollo dorato della City, un palazzo di cinque piani a Chelsea, una moglie bellissima – anche lei del ramo: analista finanziaria sull’Herald – un figlio ancora piccolo. Una vittima oscura: Khartik Rajaram, 45 anni da Porter Ranch, Los Angeles, broker di poca fortuna con moglie, tre figli e suocera a carico. Il primo si è ucciso gettandosi sotto un treno ad alta velocità vicino alla stazione di Taplow, nel Berkshire. Il secondo, come Goebbels, ha sterminato tutta la famiglia e ucciso se stesso a colpi di pistola, perché “vista la situazione era la cosa più onorevole da fare”. Khartik, come nel ‘29, aveva perduto tutto, compresa la speranza e la faccia: ex dirigente modello licenziato dalla sua azienda aveva tentato la via del rischio che, dicono i manuali, è quella giusta ma non nel momento sbagliato. Kirk invece non aveva ancora perduto tutto: gli restava qualcosa ma troppo poco per giustificare una vita da star. Fosse ancora vivo Arthur Miller, forse riprenderebbe a scrivere da loro: un ultimo sforzo da drammaturgo ripensando a suo padre che dalla crisi di Wall Street era stato travolto, e poi si era rialzato, lentamente, come un altro uomo per comunicare ai figli quel brivido tenebroso, fatale che accompagna ogni crollo e resta nell’aria con la sua vibrazione, il suo odore di terremoto, il suo odioso sentimento di imprevedibilità, qualcosa che non si vuole più provare ma non si riesce più a dimenticare. E invece il direttore generale di Olivant Advisers e il commesso viaggiatore di Porter Ranch finiscono come vittime collaterali di taglio basso nelle pagine dedicate al grande botto da 1400 miliardi di dollari, una cifra che per qualunque persona normale non significa assolutamente nulla, perché si annulla nella sua stessa enormità. Scivolano nel fiume assieme ad altri annegati e scompaiono rapidamente alla curva successiva: persino nei disastri che produce è sempre l’alta velocità che continua a dettare i suoi tempi di sparizione delle cose e delle vite che travolge. Non soffermatevi sull’incidente – non intralciate l’arrivo dei soccorsi – non è tempo di raccontare storie, ma di approntare soluzioni, creare fondi, tappare falle, magari imbastire dibattiti sulla natura dei crolli finanziari – ciclici o strutturali? reali o virtuali? Anche continuando a fissare lo sguardo dove persino l’occhio più distratto non può più sorvolare – sull’ago di un sismografo impazzito – quel che deve essere comunque tralasciato è la miseria umana che da questi crolli è stata seppellita: non sia mai che dalla sua debolezza perturbante, dalla sua atterrita fragilità, dovessero scaturire i lineamenti di un ritratto collettivo nel quale potremmo riconoscerci. Quel che non ucciderà il sangue, profetizzava Jean Luc Godard in Allemagne Neuf Zero, verrà ucciso dal denaro: sono le due facce apocalittiche del mondo che abbiamo costruito. Eppure persino ora, l’ideologia che trasforma gli uomini in numeri e i numeri in ecatombe di esistenze, non può essere discussa nella sua essenza morale, magari mandando al diavolo la moralistica distinzione tremontiana tra un’economia reale (buona) e una virtuale (cattiva anzi perversa); persino ora, come direbbe Ulrich Beck, le soluzioni biografiche, divenute nel frattempo dissoluzioni, continuano a mistificare le contraddizioni sistemiche, e i Kirk e i Khartik sono vittime, sì, ma principalmente di loro stessi. Nessuno dovrà chiedersi: quante cazzate al giorno bisogno raccontare a se stessi per convincersi che quella metafisica delle apparenze che è il capitale finanziario ha preso il posto del Destino antico rendendo degna o indegna di essere vissuta non solo la nostra vita ma, tribalmente, anche quella di chi amiamo? Quale sottile depressione aveva sempre albergato nel cuore vittorioso di Kirk Stephenson stroncato nel mezzo del cammino dalla sua ansia di prestazione? Il vecchio Balzac pensava che il denaro sintetizzasse e sostituisse delle passioni squisitamente umane. Uno dei suoi lontani eredi, il romanziere americano Don DeLillo, dice che il denaro, come la pittura, ha smesso di raccontare per parlare soltanto a se stesso. Diventato ossessivo, il monologo si interrompe con il classico colpo di pistola. Ma a tirarlo, come sempre, può essere soltanto un uomo. Di chi bisogna fidarsi allora, a chi bisogna restituire la parola? Alla fiducia dei banchieri che fino all’altro ieri descrivevano la finanza globale come il fantastico mondo di Giocagiò e ora biascicano qualche pallida perplessità da pugili suonati in cerca di rivincita? o alla disperazione dei soccombenti che, sull’orlo del precipizio, rivelano la faccia oscura del migliore dei mondi possibili? Chi risponderà ora del sacrificio sociale, tribale dei Kirk Stephenson e dei Khartik Rajaram e di tutti coloro che, principi o peones, hanno interiorizzato il pensiero unico del capitale globale fino a credere che, lontani dal sorriso della sua Grazia, non potesse esserci alcuna salvezza? |