Anno 1 Numero 36 Del 27 - 10 - 2008
Esperamos Esperanto
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
La crisi è un raffreddore. Difficile non essere d’accordo. Perché a contrastare le tesi apocalittiche sta l’evidenza dei fatti. A confermarlo sono economisti e storici come Francis Fukuyama e Paul Kennedy, esperto di declini imperiali e più volte tirato in ballo in questi ultimi tempi. E’ proprio lui che in un’intervista al Sole24ore smonta il mito del day after americano asserendo che chi ne ha paventato l’arrivo ha dimenticato che «gli Stati Uniti hanno 700 basi militari all'estero e 200mila soldati nel mondo, in aggiunta alle truppe schierate in Iraq e Afghanistan; che hanno i migliori centri di ricerca universitari; che investono in ricerca e sviluppo più di chiunque altro; che hanno un bilancio militare "annuale" di oltre 700 miliardi di dollari per il 2008, quanto il pacchetto di aiuti e poco meno del 50% di quel che spende per la difesa il resto del mondo. E che l'America ha un profilo demografico forte: la popolazione cresce e la convivenza tra razze è solida». Insomma, il gigante non ha affatto i piedi di argilla, e di fronte alla bufera si ripara, com’è naturale, accucciandosi, ma non crolla. La nazionalizzazione delle banche, infatti, sempre secondo Kennedy, non è l’avvisaglia di un cambiamento di sistema verso il socialismo, ma una soluzione d’emergenza rientrante a tutti gli effetti nello spazio di manovra di un governo democratico. L’autore di Ascesa e declino delle grandi potenze, ci tiene, infatti, a sottolineare la differenza in termini di linguaggio politico, fra una soluzione “ponte” sollecitata dagli eventi e una “pianificazione programmatica” costituita freddamente perché innesti un sistema.

Ma questa “differenza” linguistica sembra essere appunto il fuoco vero della crisi, che, se negli Stati Uniti, sembra passeggera, in Europa pare invece aver traslato il suo reale epicentro. E sul concetto di “libertà di manovra” evocato da Kennedy, Jean-Paul  Fitoussi, incontrato a Roma nei giorni scorsi, pare aver chiuso il cerchio della sua storica linea critica nei confronti di Maastricht e del Patto di Stabilità. Secondo l’economista francese, infatti, la crisi europea paga qualcosa di assai più grave di quell’irrigidimento dogmatico del reaganismo che Fukuyama addita come causa della crisi americana. Piuttosto quest’ordine di problemi è, per Fitoussi, paragonabile a quello che nel ’29 portò alla nascita del welfare state e dunque al rafforzamento – per tramite di un imbastardimento con elementi socialisti - di quel capitalismo ottocentesco duro e puro che stava piegandosi su se stesso verso il collasso. Insomma quella di oggi a Wall Street sembra una crisi evolutiva paragonabile ad una febbre adolescenziale, di quelle che stimolano gli anticorpi e fanno mutare l’organismo quel tanto che basta a rafforzarlo. Ma se sotto la coperta stars and stirips riposa un febbricitante, ma robusto, ragazzo di duecentotrent’anni, sotto la copertina a dodici stelle la situazione del neonato fra gli stati mondiali, ancora privo di una costituzione ed esposto alla stessa crisi, è a tutta evidenza assai più grave.
E’ proprio l’assenza di quella “libertà di manovra” necessaria a schivare il colpo o a correggere la traiettoria una volta finiti fuori strada, che Fitoussi sembra rimproverare all’Unione Europea. In una parola, essa paga l’assenza di una politica comunitaria, o meglio, paga la sterilità dell’attuale assetto dell’Unione che mantiene un ruolo di controllore attraverso i suoi regolamenti senza aver proceduto sin da subito alla nascita di un potere politico sovranazionale. Un linguaggio, quello dell’economista francese, in pieno contrasto con quello del Trattato di Lisbona, ma mirato a fare dell’Europa – ossia del più grosso bacino economico mondiale - un soggetto attivo, e non semplicemente un recinto. L’azione politica, infatti, in quanto discrezionale e non predeterminata da regole fisse, nasce per essere all’altezza dell’evento che viene a presentarsi. In questo caso è stata la crisi americana, ma a ben guardare una politica reale avrebbe meglio gestito anche quei processi interni che hanno portato negli ultimi anni a sviluppare una più acuta vulnerabilità e che vedono il proprio punto critico nella politica di “deflazione competitiva” attuata dalla Germania a scapito di Francia, Italia e Spagna. Una linea che, in effetti, ha dimostrato una debolezza ontologica rispetto allo stato di decrescita attuale e cui, di contro, si sarebbe potuta opporre una politica competitiva basata sulla produttività e non sui prezzi, col vantaggio di innescare una cooperazione spontanea tra i diversi paesi – i cui investimenti sarebbero andati a ricadere gli uni sugli altri positivamente – e tra investitori e parti sociali.

Ma se per chiunque le osservazioni di Fitoussi possano parere (a questo punto) decisamente “di buon senso”, il pendolino con cui Strasburgo interpreta il futuro pare invece ostinatamente oscillare tra altri due modelli possibili per l’Unione. Da una parte quello “tardo romano”, ossia “l’impero del vuoto”, basato sulle regole avulse dal potere politico, dall’altra quello “rinascimentale” con la riscossa degli stati nazione. Entrambi decisamente retrò, entrambi palesemente delegittimanti qualunque parvenza di unità politica in uno spazio senza anima, dalla costituzione sempre più gracile e incapace di sviluppare i propri strumenti di sopravvivenza attraverso un vero impegno congiunto in campi da cui dipende il domani come quelli della ricerca e dell’ambiente. Il pasticcio italo-francese di questi giorni sulla questione delle emissioni lo dimostra. I giochi di fazione se non portano alla rottura hanno l’effetto ancor più grave di condurre solamente ad un indebolimento delle norme e dei loro effetti (il confronto fra l’accantonata Costituzione Europea e l’attuale Trattato di Lisbona ne è esempio), conducendo nei fatti ad una immobilità che espone il corpo dell’Unione a tutti i venti, senza permettere che se ne cavalchi nemmeno uno. Il risultato è corrispettivo politico di ciò che in economia si chiama stagnazione. Noi italiani, sufficientemente esperti di governi deboli e di maggioranze frammentarie, tutte impegnate a difendere i differenti potentati e privilegi, dovremmo averne una certa familiarità e dovremmo dunque essere i primi a dichiararsi disposti al sacrificio perché finalmente anche il linguaggio politico dell’Europa possa cambiare e divenire credibilmente all’altezza dei tempi iniziando a parlare un Esperanto legislativo che non sia l’ombra di se stesso e della sua babelica generazione.