Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 36 Del 27 - 10 - 2008 |
Esserci o non esserci |
Un nuovo teatro povero come soluzione di militanza artistica |
Mariateresa Surianello |
Dopo una settimana di sospensione, di nuovo l’eco del grande parlare nei palazzi della cultura italiana arriva nel mondo reale e riconferma il taglio al comparto dello spettacolo dal vivo. Sì, no, forse, in parte... sono voci che raccontano la crisi economica e danno cifre che, fin dall’inizio di questa XVI legislatura, riflettono la volontà dichiarata dal governo di spezzare la continuità col passato. E non a caso la “riforma” della scuola è al primo posto nel carnet degli interessi dell’esecutivo. Inquietante, davvero. Ben oltre la perdita di 120 mila posti di lavoro o la disperazione di migliaia di famiglie per la campanella che suonerà l’uscita da scuola alle 12,30. Anche l’aborto della terza annualità del Patto Stato-Regioni è un problema secondario, un effetto di ritorno dell’ampio disegno governativo, nonostante molti piccoli progetti siano stati avviati e forse in un triennio si sarebbero potuti consolidare. Ma per quel teatro che in parte è stato oggetto del Patto, la danza in particolare, la miseria delle risorse (e di spazi) non è una novità, è, al contrario, una condizione esistenziale, che ne impedisce qualsiasi progettualità, quasi peggio della revoca di un finanziamento a fine anno, che provoca disavanzi non preventivati nei bilanci di spesa per produzioni realizzate e attività già svolte. La povertà è un incubo comune a tutte le realtà creative “indipendenti” (le virgolette per sottolineare che in quest’accezione l’indipendenza non esclude di vincolarsi a finanziamenti pubblici), costrette spesso a ripensare le loro forme espressive e a rimodulare i tempi della stessa creazione. E’ un dato acquisito che la fortuna del “teatro di narrazione”, balzato in testa alla lista dei “generi” più frequentati dai teatranti italiani, da oltre un decennio, sia dovuta, prima ancora che a una necessità artistica, a condizionamenti di ordine economico-logistici. Chi può negare, avendo lavorato all’organizzazione di festival o rassegne, di aver optato su scelte agili, ospitando compagnie ridotte per contenere spese di soggiorno, di viaggi e naturalmente di cachet? Si è innescato così un processo vizioso, un circolo alimentato dal binomio richiesta-offerta, che comunque non ha mancato di creare esiti memorabili. Nell’ultimo quindicennio si è avuta una tale abbondanza di prove monologanti che ha permesso l’emersione di eccellenze, dal padre di questa ondata di narratori, Marco Baliani, ad Ascanio Celestini la cui onestà di parola e gesto, proprio il ritmo del racconto, buca ora anche lo schermo televisivo. A differenza del più anziano, Marco Paolini, allontanatosi molto da quella sua prima prova televisiva, di epoca Freccero, di un Vajont ancora tutto teatrale che non strizzava l’occhio alla telecamera, come invece è accaduto dopo, con lo spezzettamento dei suoi Album. La figura dell’attore-narratore e in generale la forma monologo è l’esempio più eclatante di una povertà di mezzi endemica in quel teatro italiano che non risponde ai criteri di finanziamento locali o centrali, né rientra nelle maglie delle Stabilità. Una ristrettezza di economie, dovuta anche all’assenza di luoghi di produzione e di presentazione, quindi di “vendita”, degli spettacoli, ritornante in diversi lavori solistici degli ultimissimi anni, che mostrano una necessità di esserci, contro ogni regola, regolamento e circolare ministeriale, trasformatasi in presenze virtuose. Come quelle di Andrea Cosentino, di Daniele Timpano, di Gaetano Ventriglia, attori-autori-registi in costante “auto-produzione”, che incarnano tre punte di una vasta comunità di teatranti tanto poveri quanto rinnovatori della scena italiana. Che siano figli diretti della lezione grotowskiana è qui interessante nella misura in cui questi attori riescono a creare fatti capaci di comunicare attraverso la sola risorsa loro accessibile, il proprio corpo scenico. Una scelta di linguaggio essenziale e profondo che Ventriglia ha mantenuto dirigendo i cinque attori di I can’t get no satisfaction dai Ricordi dal sottosuolo di Dostoevskij, portato nei giorni scorsi a Roma, al Rialtosantambrogio. A fronte della pochezza di risorse, che caratterizza il fare teatro fuori o ai margini di piccoli poteri economici, emerge la volontà forte di mantenere una continuità produttiva, imperniata sulla capacità di ricercare un proprio linguaggio, coerente con la spinta creativa. Per quanti in queste zone marginali del teatro utilizzano tecnologie – Santasangre e Muta Imango, per citare due compagini romane cresciute rapidamente – la costrizione a modellare forme e linguaggi in base alle instabilità di cassa è un rischio da considerare, in alternativa alla sparizione e al silenzio. Significativa di una trasformazione di passo – legata forse ai bilanci di spesa della compagnia – è la vicenda produttiva dell’Accademia degli Artefatti, che ha portato Fabrizio Arcuri ad abbandonare la ricerca installativa e la sovrapposizione d’immagini, con Dall’inferno come caotico momento di passaggio, in favore di un’asciuttezza incandescente. Già dalla prima messinscena dei testi di Martin Crimp, Tre pezzi facili, tra il 2004 e 2005, il regista romano riformula il suo linguaggio ed entra nella maturità artistica. Una strada felice e ricca d’incontri, da ultimo con un altro britannico Mark Ravenhill (un dittico che ha debuttato al Belli di Roma per Trend, i primi di ottobre). Chissà se a fargliela imboccare siano state davvero le ristrettezze economiche? |