Leo de Berardinis
Leo de Berardinis
Un'immagine dallo spettacolo
Un'immagine dallo spettacolo "Lear Opera"

Anno 1 Numero 37 Del 3 - 11 - 2008
“A prescindere” dalla morte
Una riflessione con propositi rivoluzionari su Leo de Berardinis, il suo teatro e le sue idee

Renato Nicolini
 
1.
Leo è morto, dopo sette anni dall’anestesia fatale dell’11 giugno 2001 che l’aveva trasformato in un’assenza. Poco più di un anno dopo la morte di Perla.

Il teatro di Leo e Perla è stato, innanzi tutto, un teatro di rivolta. Un appello costante alla rivolta, contro l’abitudine di prendere il mondo così come viene e come va. “La coscienza nasce dalla rivolta”, scriveva Albert Camus, un uomo che era (anche) uomo di teatro (scrittore, regista ed attore) e che gli somiglia - che forse è più simile (nonostante il Caligola) a Leo che a Carmelo. Quello che possiamo proporci – in questi tempi piuttosto bui – è di “essere piccole minoranze di rompicoglioni con un progetto in testa” (così ha recentemente parafrasato Goffredo Fofi). Nemmeno “minoranza”, Leo e Perla erano soltanto una coppia. Ma una coppia che non rinunciava, per il piccolo numero, alla ricerca della coscienza e della verità attraverso la rivolta: che per questo va a vivere a Marigliano, mette in scena King Lacreme Lear Napuletane, Sir e Lady Macbeth, Rusp Spears… La verità nasce dalla pluralità e dal conflitto delle opinioni; dunque, pur avendo una consistenza oggettiva, il “noi” non raggiungibile dall’individualismo, è una conquista soggettiva, che non si può trovare in coro. Questo ci porta all’essenza del teatro, al rapporto tra scena e spettatore. Recitare è – secondo Leo - improvvisazione jazz, non si può ripetere senza variazioni, che dunque non può essere riprodotto dai media che in modo infedele.  Leo viveva la sua vita con sicuro intuito situazionista, in un modo che ricorda le epifanie di James Joyce per le strade di Dublino. Leo incontrava Giuliano Cordovado, il cameriere semi cieco dalle lenti spesse che serviva ai tavoli di una pizzeria di via Bergamo, dove andava a cena; o l’assessore Nicolini; e li portava con sé in scena.

Ho fatto il nome di Joyce a proposito di Leo, perché Leo, uomo di teatro integrale era (forse proprio per questo) anche qualcosa di più, un grande intellettuale. Il solo paragone possibile, in Italia (e in Europa), è Carmelo Bene. Ma, a differenza di Carmelo, Leo era incapace di concedersi ai media da star, viveva la condizione teatrale in una volontaria condizione di purezza, riportava tutto al teatro, Joyce, Schönberg, Charlie Parker, Thelonius Monk. Il teatro come pensiero sensibile, indissolubile dal corpo, non esprimibile altro che con la fisicità della voce e del corpo. Partendo dal presente, dalle avanguardie del ‘900, Leo recuperava alla sintonia col presente l’intera tradizione teatrale: le maschere e i lazzi della commedia dell’arte (Il ritorno di Scaramouche); Eduardo (A da passà ‘a nuttata); Pirandello (I giganti della montagna, dove interpretava il ruolo della Contessa Ilse). Ero presente quando Eduardo negò, nel suo camerino, a Leo e Perla – nonostante Leo si fosse fatto precedere da uno splendido articolo su Eduardo pubblicato da “Rinascita” – i diritti della Filumena Marturano. Non credo che Eduardo potesse immaginare che avrebbe dovuto proprio a Leo, con la rappresentazione di A da passà ‘a nuttata, al Festival di Spoleto, la più bella messa in scena del suo teatro dopo la propria morte.

Le polarità attraevano Leo, come se per lui non potesse esistere pensiero e vita senza conflitto. Lui e Perla hanno rappresentato una grande coppia teatrale per l’interscambiabilità dei ruoli; in scena Leo partiva dall’ironia, dallo sguardo esterno, Perla dalla passione e dallo sguardo interno: ma spesso per scambiarsi le parti. Sono stato testimone diretto, nei loro ultimi anni romani insieme, dal 1980 al 1983, del modo di lavorare di Leo: passando insieme a lui, a Perla, a Patrizia (Sacchi) innumerevoli notti a bere, a leggere le prime scene della Filumena (Leo mi affidava la parte di Alfredo, il maggiordomo), ad ascoltarlo recitare il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare dalla “Vita Nova” di Dante, a sentirlo parlare di Schönberg e della fonazione, del jazz e dell’improvvisazione, a leggere il monologo di Bruto (che nel Giulio Cesare precede il monologo di Marc’Antonio, e che secondo Leo mi si attagliava perfettamente, era una parte “scritta per me”, perché era “il monologo di un politico”, di qualcuno che si convince e tenta di convincere delle ragioni “oggettive” che porta senza poter riconoscere più la tendenziosità che le anima…  Sono rimasto colpito dal modo in cui, in quest’ultimo periodo del Teatro di Leo e Perla a Roma, prima della loro separazione dell’83 e della sua partenza per Bologna, Leo costruisse il proprio spettacolo, a partire dal testo, fin nei minimi dettagli, e poi non esitasse a stracciarlo in scena per seguire un’ispirazione, o un umore del momento, fosse anche dettato da stanchezza o irritazione (come la celebre invettiva contro Rita Sala, nell’unico terzo tempo di Udunda Indina in cui non ero presente, che gli valse un’acida reprimenda del Messaggero). Ne derivava una totale libertà, quella che dovrebbe essere sempre propria dell’artista nei riguardi della sua creazione, se non vuole essere il primo a trasformarla in merce feticizzandola. Deve restare qualcosa di vivo. Il suo periodo di “regista stipendiato” di Nuova Scena, a Bologna prima della costituzione del Teatro di Leo, può però essere letto come un consapevole sottoporsi alla fatica della disciplina, come per rimettere piede a terra, depurandosi dagli istinti di autodistruzione. Non senza una sfumatura di autodenuncia – come quando per il primo spettacolo bolognese, The connection, si è presentato in scena avvolto in bende di gesso.

Nella cultura di Leo “alto” e “basso” (ma in modo sostanziale, non con quella lieve sfumatura di snobismo che pur c’è nell’inventore di questa distinzione, Umberto Eco), si richiamavano, mescolavano ed appoggiavano continuamente. Totò – icona della cultura “bassa” e popolare - ha una forza così grande, che si può legittimamente fondere il suo spaesamento perenne con le incertezze di Amleto (Totò, Principe di Danimarca).

Leo aveva già recitato il ruolo di Titina, la celebre scena della Filumena in A da passà ‘a nuttata. L’opposizione maschile – femminile (“Leo è Ofelia”, diceva la T-shirt fatta stampare per l’occasione) è al centro di Past Adam ed Eve’s – il suo ultimo spettacolo, quasi uno spettacolo da camera, solo in scena con Valentina Capone, dopo i quaranta attori di Come una rivista). Anche il contrasto tra l’attore solo in scena (Novecento e Mille, forse il suo spettacolo più bello, il ritorno alla gioia della sorpresa teatrale – dove Leo oltre a recitare curava tutto, dalla scenografia, alle luci, alla musica) e il grande spettacolo di massa fa parte della lezione di Leo. Penso allo spettacolo con cui concluse nell’83 il suo soggiorno romano, quasi un testamento profetico alla maniera di san Giovanni a Patmos. Una vera Apocalissi, una Strage dei colpevoli con più di cento attori in scena, imprevista conclusione del “Censimento teatrale” promosso dall’assessorato alla cultura ed affidato a Leo. Leo, da vero maestro, invitava i gruppi censiti a riconoscersi alla fine colpevoli, a non cercare alibi e scuse per una condizione di marginalità. La responsabilità è alla base di ogni vera autonomia, che deve saper sempre prendere in considerazione l’autosufficienza, saper fare a meno del superfluo. Anche nel barocco – così facile a Roma - può esserci quel superfluo che nasce dal tenero sentimentalismo dell’autocommiserazione.

Leo mi ha portato in scena con sé, per la prima volta, nel 1980, per la messa in scena di Udunda Indina. Lo fece dopo aver rifiutato (come Carmelo) di recitare nell’occhio di Apollo della città del teatro costruita a via Sabotino e programmata da Patrizia Sacchi con i gruppi di avanguardia già attivi negli Anni Sessanta (Mario Ricci, Carlo Quartucci, Beno Mazzone, Pippo Di Marca, Memè Perlini, Giancarlo Nanni, un omaggio allo scomparso Claudio Privitera…) per Parco Centrale. Credo volesse essere lui a prendere l’iniziativa, a non lasciare ad un altro le redini del gioco. Ed infatti, Udunda Indina fu uno spettacolo, a suo modo, molto politico, che mi fece come guardare dentro di me dal di fuori, una sorta di assessore messo a nudo. II titolo era in un sanscrito inventato da Leo, come molte altre parole dello spettacolo, ragione per la quale veniva distribuito allo spettatore un piccolo dizionario. Nella scena iniziale, Leo entrava, tenendo in mano un cartone di latte Parmalat, lo guardava con schifo, diceva: “Par malat? Pare malato!”; e lo lasciava cadere in terra. Lo spettacolo era una versione sintetica dell’Otello. In cui, alla fine i quattro attori in scena (Leo, Perla, Patrizia Sacchi e Totò Pettine) giacevano tutti morti a terra. Morivano dopo aver invocato a lungo (quanto inutilmente), “Re-nato, Re-sole, l’as-censore per la cultura...” Solo dopo che erano morti, finalmente io, l’assessore Nicolini, entravo in scena, alzandomi dal posto in cui ero seduto sotto la tenda di Spazio Zero di Lisi Natoli (un altro protagonista di quegli anni che ci è venuto a mancare, e proprio per la difesa di Spazio Zero di Lisi Natoli ho incontrato la prima volta Leo, che era venuto a sostenerlo al Consiglio della Prima Circoscrizione…). Illuminavo la scena con una lampadina tascabile azionata con l’energia della mano, di provenienza sovietica, che allora si vendeva a Porta Portese, dicevo la mia battuta, che ancora ricordo: “Più luce! Più luce! Tanto è inutile, senza più nervi o-culari. Per quanto mi riguarda e m’interessa ora, addio vecchio Big Bang!”, voltavo le spalle al massacro ed uscivo di scena. Dopo ci fu il grande successo del Secondo Festival Internazionale dei Poeti di Simone Carella, Ulisse Benedetti e Franco Cordelli, a Piazza di Siena, che Leo e Perla conclusero con il XXXIII Canto del Paradiso (con musiche al sax composte e suonate dallo stesso Leo). Così decisi di incoronare Leo poeta in Campidoglio. Ma la sera dell’incoronazione non potei essere presente, perché l’allora Sindaco Vetere mi precettò per rappresentare il Comune alla prima del Teatro dell’Opera. Così arrivai a incoronazione finita, direttamente nella roulotte utilizzata da Leo come camerino. Avevo in mano una bottiglia di colonia omaggio dell’Opera per gli spettatori della prima e ne versai qualche goccia su un fazzoletto per detergergli il sudore. Ci fotografarono, e la foto uscì su “Rinascita”. Leo disse: “Sembriamo due ricchioni”, e ci venne l’idea di uno spettacolo da fare insieme, Shakespeare e Lord Southampton in ruoli invertiti. Data l’inversione dei ruoli, io interpretavo Shakespeare, Leo il mio protettore. Non senza qualche intento di ammaestramento e di illuminazione a mio uso e consumo, Leo-Southampton rimase sdraiato sul lettino con cui era entrato in scena per tutto lo spettacolo, senza dire né fare nulla: ecco cosa bisogna aspettarsi dal potere. La terza tappa della mia educazione attraverso il teatro, la nostra ultima volta insieme in scena, fu in un’”apparizione” di Leo al Beat ’72. Gli sono stato spalla in una rievocazione di Totò. Ero – profeticamente, non ero ancora stato eletto in Parlamento – l’onorevole Cosimo Trombetta del celebre sketch del wagon lit. Fu quella anche l’ultima volta di Leo e Perla insieme in scena, perché Perla era presente e dalla piccola platea del Beat salì in scena, per fare la parte di Isa Barzizza. Ma, come Leo in Lord Southampton, dove Perla per la prima volta non era in scena assieme a Leo, si sdraiò immobile sul tavolo al centro della scena.

2.
Nei suoi ultimi anni di attività, anche come reazione allo sfratto dal teatro faticosamente conquistato, il San Leonardo, che gli aveva subito intimato l’appena eletto nuovo Sindaco di Bologna, Guazzaloca, Leo si era dedicato con grande impegno ad un nuovo progetto: la costituzione di un Teatro Nazionale della Ricerca, di cui – con molta generosità – mi avrebbe voluto presidente. Nei documenti che mi aveva inviato era centrale l’idea dello stretto rapporto tra cultura “popolare” e l’identità complessiva che il teatro (atto simbolico per eccellenza) è chiamato a rappresentare. Nato dal teatro universitario, Leo approdava per necessità, alla fine della sua lunga parabola, a qualcosa che richiamava Strehler e Grassi, la costruzione del “Piccolo” di Milano. Per questo la nuova istituzione che Leo lottava per costruire doveva essere un’istituzione “nazionale” e “stabile”. Ma, a differenza dell’idea (pur nobile) di Strehler e Grassi, non si sarebbe dovuta trincerare, isolandosi volontariamente, all’interno delle mura sempre autoreferenziali della cultura alta – o della giustificazione della “funzione teatro” per via della pedagogia e della formazione. Nella sua idea, Shakespeare (o Schönberg) e Totò erano inscindibili, la cultura è “una”, ma di questa unità fanno parte sia il comico che il tragico, sia il sublime che il grottesco, sia il presente che la tradizione. La formazione degli attori, dei tecnici e dei “politici” necessari a quest’idea di teatro doveva essere pronta a mettersi in gioco, misurandosi senza riserve con la “povertà” del presente. La capacità tecnica, vale a dire di esprimersi teatralmente (con più di una riserva dunque, per fare un esempio, verso l’armamentario tecnologico dell’ultimo periodo della Socìetas Raffaello Sanzio), verificava la validità del progetto, senza nessun alibi né compiacimento idealistico. “Chi non spiega è responsabile”, ma la spiegazione passava per la complessità anziché per la semplificazione, attraverso tutte le emozioni (anche la capacità di ridere al cinema, come nel film di Preston Sturges “I dimenticati”) che percorrono e compongono la società di massa. Vedo cosa è diventato il teatro italiano oggi, sempre più affare di rappresentanza politica e di “manager”, sempre più estraneo alle motivazioni profonde del teatro. Potrebbe essere il modo giusto di rendere omaggio a Leo, avere la forza di riproporre questa sua idea.


A teatro: Leo de Berardinis e Perla Peragallo saranno saranno ricordati in una serata speciale lunedì 3 novembre al Teatro Valle di Roma