Anno 1 Numero 38 Del 10 - 11 - 2008
Come in televisione
L’incidente della realtà

Attilio Scarpellini
 
In La fille qui cachait ses yeux, l’ultimo romanzo dello scrittore Jean Roux, un uomo e una donna viaggiano insieme sull’autostrada che da Parigi va ad Avignone. Mentre stanno parlando un rallentamento improvviso li porta nel cuore di un incidente sulla corsia di sorpasso. “Albert dovette forzare la mano sul volante, mentre la scena dell’incidente emergeva da lontano come una nube che nel cielo forma una figura inaspettata, e forzare se stesso per non pensare che la vera destinazione di quel viaggio, il loro primo viaggio insieme, non fosse bruscamente arrivata e ora, mentre le scorrevano accanto nel traffico canalizzato dai poliziotti, a quella strana andatura lenta e crescente, simile al ritmo di una triste sinfonia, stavano entrando in un altro tempo, nel loro limbo: con la coda dell’occhio aveva intravisto l’automobile rovesciata sul ciglio della strada, forse una Peugeot 305, e l’ambulanza che avanzava quasi senza peso nella direzione opposta di marcia; proprio sulla striscia della mezzeria un uomo era disteso a terra, la testa appoggiata su una giacca ripiegata, un altro gli stava sopra, chino sul suo corpo, come se lo volesse ricoprire o raccogliere dalla bocca le sue ultime parole, le porte dell’ambulanza si erano aperte e, con angelica indolenza, gli uomini con il giubbotto rosso spingevano la barella sulla strada. Albert si rese conto che la mano di Esther si era staccata dalla sua e che adesso aveva paura di alzare gli occhi su di lei per guardarla.” Più tardi, mentre i due sono seduti al tavolo di un ristorante assieme ad altri amici, Esther racconta la sua versione dell’incidente, omettendo completamente il dettaglio dell’uomo sdraiato a terra: il traffico rallenta, le ambulanze arrivano suonando dall’altra parte della strada, e all’improvviso “tutto è stato come in televisione, persino la patina delle immagini era cambiata: era diventata più vaga e nello stesso tempo più fatale.” Roux annota l’euforia con cui la ragazza, una body artista che si esercita “a far sparire il proprio corpo”, descrive la scena agli amici: “avvolgendo ogni parola nell’emozione briosa, innocente di un evento dove non è avvenuto niente, a parte l’evento dell’evento che con il suo ritmo da film rallenta ed elettrizza le nostre vite. Per Esther la realtà aveva prodotto l’ennesima sceneggiatura. Nascosto dietro un sorriso rarefatto, Albert la guardava obliquamente, indeciso se amare perdutamente quell’innocenza che senza dubbio lo avrebbe dannato per tutta la vita o scagliarsi contro di lei con una di quelle prediche moralistiche che erano la sua specialità” Dopo aver lasciato Esther, Albert lavorerà da una parte alla ricostruzione della storia dell’uomo rimasto vittima dell’incidente, dall’altra a quella del passato della ragazza, scoprendo che nel momento in cui suo padre è morto in un ospedale della provincia francese lei era impegnata in un provino per la televisione franco-tedesca Arté. La fille qui cachait ses yeux, romanzo incompiuto (e fallimentare secondo il suo stesso autore che lo aveva destinato al macero), continuerà a girare a vuoto sul tema dell’elusione della morte o meglio dello scarto temporale tra la puntualità del suo evento e l’impossibilità di guardarlo in faccia, di entrare “con gli occhi aperti”, come dice Esther “nello spazio in cui un altro venendo meno al mio sguardo lo azzera, costringendomi a non essere più o a esistere solo dopo di lui”.
 
Un'altra scena di incidente occupa completamente la videoinstallazione dell’artista olandese Aernut Mik presentata al Museion di Bolzano nel corso dell’esposizione inaugurale Sguardo periferico e corpo collettivo. Per la precisione, l’immagine di Refraction (2004) straborda dalla sua cornice – “rompere la struttura” è una delle caratteristiche del lavoro finzionale di Mik – producendo un continuum televisivo senza interruzioni, un lungo piano sequenza che dà l’impressione di articolarsi interamente attorno all’evento: il pullman rovesciato nel mezzo della strada, una lunga coda di automobili bloccate, i pompieri e i poliziotti che prestano i primi soccorsi, i superstiti seduti sul ciglio con le coperte sulle spalle. Poi, il campo visivo che si apre in grandangolare fino ad abbracciare l’intero orizzonte, la squallida pianura ungherese, i dirupi fangosi e un gregge di pecore che attraversa la scena con l’anarchica incuranza che ha la natura sui teatri delle catastrofi umane. Dapprima è la stessa ipertrofia del disastro a produrre un sentimento di alienazione, molto simile a quello che trasuda dai reiterati incidenti delle corriere turche raccontate nella Nuova vita, uno dei più lunari romanzi di Orhan Pamuk. Ma ci vuole qualche minuto perché questo moto perpetuo di uomini e di animali, dopo aver stonato lo spettatore, cominci a insospettirlo e dalla distrattività dell’immagine televisiva emerga l’assurdità del dettaglio che rivela la messa in scena e la sua finalità: il pompiere che si cala da un oblò nell’abitacolo del pullmann entra in un ambiente completamente vuoto, gli uomini e le donne che stazionano sul ciglio della strada vengono assistiti ma non sono feriti, le barelle delle ambulanze non trasportano alcun corpo e sulla strada ci sono tutte le tracce di un incidente catastrofico tranne quelle che segnalano la sua tragedia umana – non c’è sangue, né corpi straziati recuperati dalle lamiere. Insomma, niente accaduto e niente accade. Aernut Mik ha messo in scena la forma televisiva dell’evento senza l’evento o se si preferisce il montaggio di una realtà che, per l’appunto, è ormai la mera rifrazione della sua apparenza mediatica. La percezione televisiva che nel romanzo di Roux si sovrappone alla realtà dell’evento per svuotarlo del suo contenuto reale – la morte – nella scena di Refraction dà luogo al suo contrario: l’elemento perturbante non è il cadavere, ma la sua assenza e il totale appiattimento di un’immagine priva di punti di riferimento, anche rimossi, al di fuori di se stessa. Nella sequenza tendenzialmente infinita, e vistosamente indefinita, In un senso, questo trompe l’oeil celebra la fine di quella dualità tra l’immagine e il segno che Baudrillard considerava ancora l’estrema risorsa della rappresentazione prima dell’avvento di una “realtà integrale” dove la rappresentazione non avrebbe rappresentato più nulla: né romanzo né tragedia, né epos né commedia, solo il vacuo ondeggiare dello sguardo in un paesaggio dove niente può essere al di là dell’immagine e persino le macerie della vita sono soltanto simulate. La realtà non è più neanche un incidente.