Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 38 Del 10 - 11 - 2008 |
La “scena” televisiva |
Una conversazione con Enrico Ghezzi |
Mariateresa Surianello |
Se uno scarto c’è stato, nella televisione italiana del servizio pubblico, è facile da individuare. Se si è creata una zona di resistenza alla deriva televisiva dell’ultimo ventennio, e forse ormai di più, uno degli artefici è certo Enrico Ghezzi. Icona delle notti di Rai Tre con Fuori orario, Ghezzi ha i tratti dell’anti-divo, nella sua veste, non proprio ordinaria, di lavoratore infaticabile e gentile. Divoratore e dispensatore di immagini in sequenze debordiane, tiratore di Schegge perdute, inventore di quel formato riproducibile quotidianamente, Blob, e utile a elaborare e rilanciare frammenti recuperati dalla stessa tv, come dal suo pattume, e/o preziosi inediti ripresi nei luoghi più reconditi ma sensibili del pianeta, fino a produrre una “sintesi oggettiva” della giornata, vera striscia di informazione, spesso più utile di tutte le edizioni dei tg, con Enrico Ghezzi abbiamo provato a parlare del grande assente in televisione, il teatro. Nelle scarse occasioni in cui il teatro compare in televisione (con poche eccezionalità), si percepisce una sorta di sottomissione dei linguaggi della scena a quelli della televisione. E’ così? Il teatro è stato definitivamente inglobato nel visivo televisivo? Il video più che la televisione è importante e affascinante, anche come mezzo di registrazione e di conservazione di tracce di eventi teatrali, grandi e piccoli, del resto, di qualunque cosa. Come il video e la televisione avrebbero potuto essere e non sono stati - ormai colpevolmente per almeno cinquant’anni in tutto l’Occidente, ma anche di più - una sorta di archivio permanente. Non necessariamente sarebbero dovuti andare in onda, ma di cose di ogni genere, anche semplicemente, sistematicamente registrare le voci degli anziani, non solo gli eminenti in ogni campo. Anche semplicemente registrare. E in questo, anche il teatro, non meno e non più, avrebbe avuto il suo senso. Recentemente, si è iniziato a registrare il teatro, a documentarlo. Allora è evidente che una cosa di teatro potrebbe essere per esempio un canale intero, adesso che si parla di digitale, di canali a pagamento. Non è una soluzione, io non credo che sia un problema il teatro in tv. Nulla è un problema. Semplicemente bisogna un po’ inventare le cose. Anche lì se c’è un canale intero e si limita a utilizzare vecchio repertorio e nuovo repertorio di documentazione di spettacoli e sicuramente interessante per un pubblico settoriale, può servire a imparare delle cose del teatro passato e di quello contemporaneo. Quello che secondo me manca e manca da sempre, anche se un tempo con il monopolio più ferreo Rai potevano esserci occasioni importanti, basta pensare agli esordi di Ronconi, legate comunque a personalità particolari, che comunque avrebbero fatto cose inventive. Io credo che la televisione per il modo che è, per la forma che è sia stata pochissimo, ahimè, usata non tanto – ripeto - come diramazione e transizione, ma come ulteriore set teatrale. Come il telefono. Se pensiamo una cosa che a noi ci venire in mente uno spettacolo è il telefono. E, invece, noi lo vediamo, in radio o in televisione, il telefono è il vero cambiamento di scala, è una zona di teatro quotidiano, una soap quotidiana. E’ un genere televisivo, teatrale e quasi cinematografico che sta lì, radiofonico, che sta lì, che ha altri fini, ma che ognuno di noi sa benissimo essere anche parte principale del teatro quotidiano della nostra vita. E’ poco lavorato sia dal teatro, sia dalla televisione, molto meno di quello che potrebbe. Il teatro lo trovo un problema davvero residuale, esperiale. Quindi bisogna semplicemente da una parte avere un sano sindacalismo e riformismo, un tentativo timido di ottenere risorse e poi farne un uso ottimale. Però è difensivo, è solo per esistere in mezzo a tante altre cose, dalla musica sinfonica..., parlando di televisione generalista. Lo stesso nelle televisioni via cavo avere i vari scaffali. La vera invenzione teatrale sarebbe pensare teatro, non necessariamente con testi nuovi, non vanno inventati i testi, ma pensare a messe in scene televisive, che si confrontino con la forma, col volto televisivo, con la possibilità di interattività o di connessione che è quella televisiva, anche a partire dai vecchi testi. La ripresa pari pari di uno spettacolo sublime, vale solo per uno spettacolo sublime, di Ronconi, di un Cecchi straodinario o anche uno Straub che fa il teatro a Buti, lo riprendi anche frontalmente, anzi meglio frontalmente che non la scansione banalissima della regia televisiva e hai una cosa lontanissima dal teatro, è lo spettro del teatro. Che poi, senza essere pensato, è quello che avviene normalmente. Altra cosa è stato il teatro in televisione di Eduardo, che erano proprio regie televisive e che molto hanno contribuito alla grande fortuna di quel teatro. non è un caso che quando ha fatto – pur essendo in periodo di monopolio, quindi teoricamente sarebbe stato pensabile – quando ha fatto l’Orlando Furioso per la televisione ha fatto un film magnifico, sontuoso, uno scacco. Tanto lo spettacolo era innovativo, quanto il film era un film sull’impossibilità di osare una cosa tale in televisione che pure era il set più adatto per fare questo. Probabilmente era troppo facile farlo in televisione e troppo difficile perché mai la Rai avrebbe concesso tre reti, anche solo per due ore. Era politicamente difficile, ma tecnicamente, teatralmente, poeticamente troppo facile, perché è già così la televisione, devi comunque scegliere in un parallelismo che non è mai preordinato. Poteva avvenire con Gli ultimi giorni dell’umanità, io lo proposi all’epoca di fare una cosa su due-tre reti a notte fonda, quando comunque non avrebbe dato fastidio a nessuno. Però non si fece. Qual è stato il motivo di questa assenza quasi totale del teatro dalla televisione, anche per quanto riguarda la comunicazione (prima parlavi di pubblicità) spicciola di quanto accade nei teatri sparsi sul territorio? Uno che fa teatro oggi, vedendo la televisione asfittica e ormai priva di qualunque intenzionalità editoriale che ha tutta la televisione, non solo quella italiana, in qualche modo la televisione mondiale. Non ci sono eccezioni, le eccezioni sono singoli programmi e quindi non fanno parte di accenzioni editoriali. Rispetto a questo, situazioni di teatro, personalità di teatro, idee teatrali, non trasposte in televisione, ma che aggrediscano la televisione – si permetta questo - che tanto tutto sopporta fin troppo bene. Ogni tanto ci sono dei programmi che tu guardi esattamente come guarderesti il teatro, nel senso che ti perdi sui dettagli, su una sorta di cifra nella tela che si tesse nel pomeriggio, nella serata. In realtà segui il teatro. Tutti i talk show hanno un senso teatrale, perché per il resto sono orribile televisione, crudelissimo gioco a eliminazione, dove si vede che poi uno comincia a contare il tempo che gli rimane per intervenire. E’ osceno da ogni punto di vista, di cosiddetto contenuto, di messaggio da veicolare. L’unico elemento interessante è una sorta di set teatrale, una sorta di teatrino-teatrone. La televisione è eminentemente teatrale, è molto più vicina al teatro che al cinema. La televisione è già una sintesi di teatro e cinema. Quindi se voi non lo avete fatto il teatro, il motivo è stato la mancanza di risorse? Cosa rappresenta l’esposizione del proprio corpo dentro la cornice televisiva? Nelle tue apparizioni sfalsi i piani di esposizione – dal fuori sinc al flusso gestuale – e procedi per accumulo. Crei proprio una performance che va a scardinare la semplicità del linguaggio televisivo, quello a cui siamo abituati, naturalmente. Perché invece di lavorare in sottrazione, tenti di alimentare e di trasmettere la tua complessità? |