Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 38 Del 10 - 11 - 2008 |
Tribuna politica |
Come cambia il dibattito politico quando diventa mediatico |
Attilio Scarpellini |
«Le tribune politiche televisive dell’immediato dopoguerra – scrive Colin Crouch in un libro sintomaticamente intitolato Postdemocrazia – sembrano comiche se viste oggi; ma lo sono perché quelle persone parlano il linguaggio normale delle conversazioni serie con i vezzi e le stranezze che abbiamo tutti» I dibattiti televisivi di oggi possono essere comici per altre ragioni, soprattutto perché nessuno riesce più a misurare la distanza tra la parodia della satira (televisiva) e i suoi obiettivi reali, tra l’originale e l’imitazione: la Cortellesi su Raitre vale la Santanché a Matrix (e la Santanché ringrazia), il ministro Gasparri è l’alter ego del “suo” Neri Marcoré, tanto che qualcuno comincia a sentirsi in dovere di sottotitolare le sue dichiarazioni – come quella su Obama e Al Qaeda – specificando che non si tratta di satira, mentre Silvio Berlusconi, giunto al culmine di quel destino di icona pop che il suo principale consigliere gli aveva preconizzato qualche anno fa, può essere imitato soltanto da se stesso. Tutti costoro ed altri ancora non sono, come è ormai drammaticamente evidente, delle persone nel senso che il politologo inglese intende – abitate dalla discreta anomalia sempre uguale e sempre diversa che tutti condividiamo – né tanto meno dei personaggi pubblici, nel senso in cui ne sono esistiti fino alla Prima Repubblica, sono dei personaggi tout court, nel senso di Mickey Mouse: compresi in un tratto, ristretti in un’icona, sovra determinati da un linguaggio che, fatta eccezione per qualche idioletto, non è il loro, come non è il nostro, ma quello di tutti e di nessuno della comunicazione televisiva nell’epoca in cui il mezzo fa veramente una cosa sola col messaggio. Siamo molte oltre, e in Italia più che altrove, le annotazioni tutto sommato blande di Marshall McLuhan sulla telegenica cravatta che avrebbe determinato la vittoria di Kennedy su Nixon in un celebre dibattito televisivo anni sessanta: non c’è un politico che non abbia appreso, oltre alla propria lingua, il controllo del proprio corpo in uno specchio diverso dello schermo e che non si eserciti in quella abbreviata retorica da imbonitori che ha rimpiazzato la vecchia oratoria (tribunizia e avvocatesca) dei notabili di un tempo, guardandosi e riguardandosi dentro un video come un atleta che deve migliorare la sua performance.
Lo specchio dei politici novecenteschi era la folla, misura ondivaga di una seduzione che aveva ancora qualcosa di animale e che comunque imponeva un confronto tra corpi, tra voci, tra nervi, il calore di quella prossimità così ben evocato nel Tempo del disprezzo di Andrè Malraux, quando nella solitudine del carcere, e in un’anticipazione mentale della simultaneità televisiva, Krassner rievoca i volti di tutti i compagni, illuminati dal basso come nei quadri di Latour, che lo hanno ascoltato nell’ultima riunione. La radio dei regimi totalitari, o delle democrazie di massa, era ancora un medium “caldo” che nella voce si portava appresso un pezzo di irriducibile corporeità e che puntava tutto sul potere di concentrazione di una parola esclusiva ed invasiva: teatro di appelli e di mobilitazioni a cui da fuori rispondeva la parola critica, articolata, della stampa scritta. I politici di una volta – avidi e spietati quanto quelli odierni – nascevano dalla polvere della strada e ne portavano i segni addosso anche al potere (era la loro garanzia, l’amuleto di un successo la cui ultima istanza era comunque il territorio). I telepolitici di oggi vivono immersi in un Reality che li costringe a snervanti sessioni di bellezza o di simpatia, di seduzione o di aggressività sotto la lampada solare del consenso mediatico, l’unico parametro ammesso di un potere che, persa ogni sovranità simbolica, è sempre più simile a un indice di gradimento: la stessa autoreferenzialità di cui li si accusa così spesso non è che il riflesso dell’autoreferenzialità mediatica in cui sono impaniati. Finora non si era mai visto un ministro scapolo costretto a megafonare il proprio fidanzamento sui giornali e sulle tv, cercando di insinuare la propria love-story nelle graduatorie del gossip estivo come una qualunque velina con un qualunque calciatore. Ma lo sfondamento della quarta parete del privato è il sale di ogni stimmungdemokratie che si rispetti: la vita pubblica, gran mito della grecità che la considerava l’unica degna di essere vissuta, è solo l’amplificazione di un teatro di finzioni private chiamate a soddisfare il bisogno di equivalenza, se non di uguaglianza, dello spettatore di massa, richiedendo anche ai rappresentanti del popolo il carisma dei tronisti. Così il telepolitico diviene quanto di più simile alla fenomenologia di Mike Bongiorno a suo tempo delineata da Umberto Eco: arrogante e mediocre, moderatamente volgare, una specie di media universale del sentire comune in ogni materia. Poiché gli italiani cantano, egli canterà e anzi scriverà canzoni. Dal momento che il calcio è lo sport nazionale, ne sarà un cultore appassionato, anzi il proprietario di una squadra. Gli italiani vedono molta televisione, lui ne possiederà tre. Gli italiani amano ostentare i soldi e le donne, lui possiede i primi e millanta le seconde. E via dicendo, dalla cucina all’arte, non c’è un terreno in cui i gesti e le parole di Silvio Berlusconi non siano una gigantografia del sentimento nazionale medio come esso si è edificato in cinquanta anni di ipertrofia televisiva. Gli italiani ad esempio sono simpaticamente razzisti, oltre che terribilmente invidiosi e allora giù irresistibili battute sul messia abbronzato della Casa Bianca…Per qualcuno si tratta di una gaffe imperdonabile? Come direbbe Eco, è la lezione di Mike Bongiorno.
Il controllo esterno della propria immagine diviene essenziale: non è un caso che, a questo proposito, nessun leader sia riuscito a toccare il livello di padronanza scientifica della propria proiezione mediatica del padrone di televisioni per antonomasia, Silvio Berlusconi, l’uomo che al massimo dell’arbitrio unisce il massimo della reificazione di se stesso. L’unico leader occidentale che, come Bin Laden, preferisca comunicare inviando cassette precofenzionate alle televisioni pubbliche è notoriamente un accurato ed esigentissimo gestore delle proprie apparizioni catodiche |