Anno 1 Numero 39 Del 17 - 11 - 2008
I moti del 2008
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
E’ nel finale del libro forse più famoso di Malaparte. L’arrivo a Roma, la liberazione e un uomo che finisce per sbaglio sotto i cingoli di un carro armato venendo ridotto ad una sagoma schiacciata sul piancito. Da questo episodio involontario e triste lo scrittore torna con la memoria a qualche anno prima, in Ukraina, quando un altro uomo finito in quel modo veniva infilzato davanti ai suoi occhi da una vanga e sollevato come una bandiera. «Questa è la bandiera della nostra patria» chiosava Malaparte «una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle».
Sono gli stralci di un romanzo del 1949 che continuano a tornare su ogni qualvolta ci si scontra, scantonando, in uno di questi enormi cortei senza bandiere, che invadono le nostre città. Una moltitudine di mani alzate. Aperte. Sono anch’esse bandiere, bandiere di pelle umana che sventolano sopra le nostre teste. Sono le bandiere della nostra patria che sfilano lungo le strade di una liberazione festosa.
Passando per Piazza Venezia, dal Vittoriano pende come un impiccato il tricolore. Il tricolore di Mazzini, di Menotti, di Garibaldi, di Mameli. Tutte le mani tese in alto sembrano attendere la sua caduta, per poterlo prendere prima che tocchi la polvere. La bandiera suicidata del Risorgimento non ci appartiene più. Adesso la nostra è una bandiera di pelle umana.
Non appartiene neppure più agli sciagurati fascisti. L’hanno vilipesa nel modo peggiore l’hanno avvolta attorno alle spranghe per nasconderle, dimostrandosi ancora una volta i più deboli, ignoranti e nudi dei propri stessi valori.

Lungo le strade di Roma e di altre città gli studenti italiani, una nuova generazione, espongono il proprio corpo a tutti i venti, escono dalle loro case e fanno della loro pelle una bandiera che si srotola in mille lingue lungo le strade. Se potessimo vederla dall’alto questa marea che invade gli spazi fra i palazzi allora riusciremmo a vedere il colore della nostra bandiera. O forse no. Non lo vedremmo perché questa bandiera non ha colore. E’ una bandiera di pelle e di parole e appartiene ad un popolo che non vuole inni, ma argomenti, come nella tradizione delle rivoluzioni italiane. Vuole ragionare. Vuole ricostruire la ricetta per uscire dall’impasse politica che ha paralizzato il paese, vuole spazzare via dal parlamento il bivacco di manipoli che chiamiamo Seconda Repubblica. E’ la strada contro il palazzo. Come nel Macbeth, è la foresta che si muove. Non contro il potere, ma contro la sua perversione. Non per rivoluzionare, ma per “ristabilire”.

La sollevazione di questa stagione non è un nuovo ’68, ma un nuovo ’48 (se proprio si deve trovargli un antenato). Non è ideologica, è pragmatica. Non tende a generare un mondo nuovo, ma a “ri-costruire” un paese. Non è una rivoluzione, ma una ristrutturazione, come quella che stanno cercando di fare gli studenti di Valle Giulia a Roma, che a differenza di allora, oggi non occupano, ma ripitturano i muri, aggiustano le finestre, combattono il degrado visibile di una gestione dissennata, partono dalla pelle, per imparare come arrivare al cuore. E lo fanno mettendo le mani sulla “cosa loro”, sulla “casa loro”. Se ne reimpossessano.
Per strada è lo stesso. Il palazzo è accerchiato. E’ una zattera nella corrente che trema. Ha paura, lo dimostrano le camionette di carabinieri e poliziotti schierate in assetto di guerra, in piazza Colonna e in piazza Montecitorio, lo dimostra la foga da mastini, la foga violenta con cui gli ufficiali agli ordini dello Stato hanno spaccato le ossa ai ragazzi disarmati che occupavano i binari per cercare di far rientrare la marea. Mentre nel palazzo si sfruttava il clamore per far passare in sordina, confuso nel rumore di fondo, ancora qualche atto di regime come la privatizzazione dell’acqua e lo scandaloso verdetto del processo Diaz.

L’onda, intanto, ha ricominciato a gonfiarsi. La grande bandiera di pelle umana a srotolarsi fino a coprire la città. Lungo le strade, insistentemente, perché tutti, anche quelli che oggi stanno in silenzio credendo non ci sia alternativa agli attuali simboli del potere, vedano. Le mani in alto, ma non in segno di resa.