Artcock mentre prepara il suo poster
Artcock mentre prepara il suo poster
Una panoramica di alcune opere esposte
Una panoramica di alcune opere esposte

Anno 1 Numero 39 Del 17 - 11 - 2008
Cosa racconta la street art?
Interrogativi strutturali a partire dalla terza edizione di InternaTional Poster Art

Attilio Scarpellini
 
Il Cristo della Cena ha una vaga somiglianza con Johnny Deep, il pane su cui impone le mani è una rosetta, il vino riempie una caraffa di vetro dozzinale e Giuda al posto della solita borsa ha tirato fuori direttamente il portafoglio, mentre dalla mano nascosta dietro la schiena di uno degli apostoli (forse una citazione caravaggesca) spunta un coltellaccio da cucina: chi di spada ferisce etc... La fotografia di Artcock che campeggia su uno dei muri di Esc, una delle opere (se è ancora il caso di definirle tali) della terza edizione di InternaTional Poster Art – l'esposizione curata da Sten, Lex e Lucameleonte, viene visibilmente da Warhol e forse da un celebre fermo immagine di Bunuel in Viridiana (nonché da una serie infinita di ultime cene reinstallate nei materiali più svariati, dalla luce di Greenway al lego) ma nella cristallizzazione plastica delle sue pose si è come spento ogni bagliore di parodia e persino un teologo non ci troverebbe nulla di dire. E' precisa, puntuale, persino possibile: rimette in scena una storia evangelica finita in pizzeria sotto l'obiettivo di un fotografo d'occasione, scatta e passa, si stacca e rientra nel continuum di manifesti che rendono le pareti dell'atelier occupato di Via dei Reti una specie di iconostasi stratificata, dietro la quale non si nasconde alcun celebrante.

Non è l'ideologia, la principale preoccupazione di questo tripudio del segno metropolitano che nella sovrapposizione rende definitivamente indistinguibile la titolarità del gesto artistico, firmandosi spesso a latere, nello spazio già occupato da qualcun altro: anche il murale di L'Atlas, che domanda “chi sono i veri criminali?” allungando le sue lettere fino a trasformarle in strisce uniformi – verdi, bianche e rosse come la bandiera nazionale – è una denuncia, quanto al significato “primo”, ma è soprattutto uno studio sulla visualità della scrittura, animato dalla stessa ansia di evidenza che spinge l'action painter francese a ricalcare con il peso del suo corpo le sagome dei tombini di Parigi, e trasformarle in altrettante mappe grafiche di mondi che aspettano ancora di venire all'esistenza negli interstizi della metropoli. Come a dire: dove tutto è funzionale, normato, trasparente, solo la decorazione è sovversiva poiché dimostra ciò che altrimenti è destinato a restare nascosto, come l'impronta di una città sotterranea – il  grande mito della Parigi speculare descritta da Hugo e da Sue.  L'idea che il flusso metropolitano vada interrotto e rimodulato a partire da uno sguardo che il più delle volte è un frammento di leggenda – basta gettare un occhio al fitto ricamo grafico di Ufo 5 che nel suo viluppo di teschi, cuori e angeli caduti si presenta come una visione alla William Blake – che ogni superficie urbana possa diventare una finestra e dallo sfondo corroso, indistinto (del muro e della maceria) possa riemergere un potere di figurazione, cioè una decisione formale (questa sì intrinsecamente politica) è forse l'unica che radichi veramente il congenito anarchismo espressivo della street art in un'istanza di comunità.

Anche perché la pseudonimia, come la letteratura del secolo scorso insegna, è il contrario dell'anonimato: è la proclamazione di un'altra identità (di un'identità romanzesca, lo ripeto, leggendaria) rispetto a quella assegnata dall'individualismo di massa, la volontà di rifondere un corpo reificato nell'alterità del segno, cioè del desiderio con tutto il peso vertiginoso della sua gratuità. Sostenere che questa idea è anzitutto un gesto, limitandosi così a registrare l'ennesima resistenza alle derive della modernità – o il supplemento d'anima di una creatività destinata prima o poi a tradursi dalla strada nel mercato – significa incaprettare il “fenomeno” nella sociologia dell'arte. Mentre come la mostra di Esc dimostra nel suo spontaneo, nel suo potente esporsi in un luogo di convivialità quotidiana – accadeva nelle chiese, ancora qualche secolo fa, che l'arte fosse parte di un'offerta – è forse arrivato il momento di analizzare dei linguaggi. Sarebbe interessante capire, ad esempio, cosa racconta la passione figurativa dell'arte di strada agli aedi del “contemporaneo”.