Una immagine da
Una immagine da "Consegnaci, bambina, i tuoi occhi"
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Una immagine da "Consegnaci, bambina, i tuoi occhi"

Anno 1 Numero 40 Del 24 - 11 - 2008
Stanze in fondo
Si č conclusa a Parma l’ultima edizione di “Natura Dči Teatri”

Massimo Marino
 
Opere Pazienti racconta una ferita e uno splendore: la mansuetudine, la malattia, la sofferenza, la rassegnazione, e la rabbia, la voglia saturnina di rifondere un mondo fuori dai cardini con l’arte. L’acrostico di questa edizione del festival Natura Dèi Teatri, organizzato da Lenz Rifrazioni, ricorda – casualmente – quello di Ospedale Psichiatrico, e non a caso si apre nella reggia di Colorno, che fu, nel suo abbandono novecentesco, luogo di reclusione manicomiale. Inizia con una versione poetica, struggente, malata della favola di Cappuccetto Rosso, un percorso itinerante in 17 stanze del piano nobile dell’edifico settecentesco, in attesa di tornare a Parma, per il resto della rassegna, negli spazi industriali di Lenz, che ora giacciono nel vuoto degli abbattimenti della zona intorno alla stazione, soggetta a una ristrutturazione urbanistica. Il capannone di Lenz aspetta un rinnovamento che dovrebbe farne il centro culturale pulsante del nuovo quartiere, anche se in queste operazioni, a capitale pubblico-privato, si sa dove si inizia e non si capisce dove porterà la speculazione, in agguato anche alle spalle di un progetto interessante sulla carta, elaborato dallo studio Mbm Arquitectes di Barcellona, quello che ha ridato vita a parte della città catalana in occasione delle Olimpiadi. Per questo il festival inizia con Spazi nel vuoto, un incontro sul tema del teatro che inventa i propri luoghi, tra memoria e progetto, tra uso (o ridefinizione) di contenitori esistenti e invenzione, sempre con la guida di un’etica, una poetica, una drammaturgia, una identità artistica.

Poi Lenz dà la dimostrazione di cosa vuol dire “vivere gli spazi”, con il bellissimo Consegnaci, bambina, i tuoi occhi, dalla Ballata di Cappuccetto Rosso di Federico García Lorca. Il testo è un poema giovanile, inedito fino a pochi anni fa, in cinque parti: uno stupito canto all’amore e allo smarrimento, che trasforma Cappuccetto in una specie di Dante persa in un surrealista bosco dove fiori, uccelli, acque vogliono i suoi occhi capaci di guardare il mondo con incanto. La bambina delle favole, in preda all’ansia, si affida a un ruscello, che la trasporta in un paradiso inerte, dove i santi vegetano nella paura dell’irruzione dell’inferno. Le farà da guida San Francesco, tra stanze polverose come quelle di un museo, come la religione cattolica vista da Federico ventenne, nella fase di una prima ribellione tutta affidata allo stupore della poesia.
Caperucito (così suona Cappuccetto in spagnolo) è Barbara Voghera, una delle attrici “sensibili” di Lenz: una donna down che lavora con la compagnia da alcuni anni, donando profondità vertiginose ai suoi personaggi. I suoi occhi leggermente asimmetrici, in qualche momento fissati come su un altrove o su un’interiorità vicina e imprendibile, diventano i protagonisti di questo viaggio per fuggire da chi vuole rapire lo sguardo, la capacità di vedere, discernere, immaginare. E gli oggetti, di Maria Federica Maestri, che firma anche la regia e che con Francesco Pititto è l’anima immaginativa della compagnia, ci precipitano in un bosco con il rumore, i colori, le asprezze dei nostri giorni, con papaveri fatti di sportelli rossi di furgoni e fiumi come una teoria di lavandini, con gli occhi di Caperucito duplicati nelle prime stanze, inquadrati in specchi, in cornici, in stucchi.
Salverà la bambina un ambiguo San Francesco, che appare con in bocca un uccellino, come un lupo. È un’attrice, Valentina Barbarini, rasata e con un saio, pronta a indossare nelle sue dolci e insidiose trasformazioni altre pelli. Il paradiso di García Lorca diventa un viaggio tra le decorazioni e le boiserie rococò del palazzo e le figure di quel paradiso inquietante e dimenticato, popolato da santi interpretati da ex malati reclusi in quelle stanze quando erano manicomio, fermi, seduti, immagini di un tempo che non passa, che ancora ferisce. Ci sono giocattoli, fiori di plastica, apparizioni attraverso fughe di stanze, croci indossate per un cammino di liberazione che assomiglia a una passione dalla protagonista, piccola, inerme, dalla voce densa come miele, piena di tremori e piccole sicurezze, con il calore vibrante e un po’ rauco di chi sa, nonostante la paura, dove andare. Tra i santi abbandonati, in trionfi di panini, con le mandibole in eterno movimento, c’è il mangia-sempre-tutto San Trippone (San Apapucio Pappagorgia nell’originale). E ci sono anche dèi pagani, come Eros, che ferisce a morte Caperucito. Solo una vecchia Madonna, interpretata da Francesco, lupo amoroso e feroce nei panni sadomaso di una giovane bagascia, potrà medicarla, precipitandola, tremante ancora di quella bestia fuggente che è amore, nel bosco dell’incubo iniziale. Mentre le parole del poeta parlano dei sogni che non devono morire e affidano la custodia di questa campionessa dell’immaginazione e di una fanciullezza minacciata e svanita a una lepre e a un lupo (ancora), la fantasia degli autori, più perfidamente, ci insinua l’idea che nessuna consolazione sia possibile in quella foresta insidiosa, mortale, che è la vita.

Il festival è pieno di performance che sfidano lo spettatore a guardare e a riguardare, più a fondo, senza lasciarsi sedurre. Sono magari movimenti minimi, disposti in serie ordinate, apparentemente sempre uguali, come in Ordinale, un breve intenso studio di Habillé d’eau, o lettere dalla prigionia in Germania di un marito alla moglie, che fotografano un tempo coatto e quotidiano, apparentemente senza sviluppo, in Così lontano, così vicino dei performer Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini. Così l’altra opera di Lenz, Chaos, dal primo libro delle Metamorfosi di Ovidio invoca un altro sguardo.
Qui non siamo davanti a un ipermondo terminale, ma alle origini del cosmo, all’indistinzione della materia originaria che precipita nell’individuazione delle cose. Appare l’età dell’oro che svilisce in quella del ferro, fino alla fuga per malinconico dispetto degli orrori umani della vergine Astrea, indietro fino alla ribellione dei giganti, dal cui sangue infetto nacquero gli uomini. Immagini, primissimi piani di dettagli dei corpi, circondano tre ragazze e un uomo maturo nudi e rasati, prima ombre, poi presenze ora mitiche ora abbigliate da bordello, incorniciate dai versi latini di Ovidio o dal grido di parole d’amore e disperazione di Romeo e Giulietta, da suoni lancinanti o da refrain consolanti. Un corpo di plastica, un corpo incrostato di superfetazioni o denudato, un corpo poema o immagine, un corpo tradito, un corpo implorante, un corpo così presente da risultare vacuo, da svanire, da gridare, è quello delle fantasie ossessive di Lenz. Sta in bilico tra le crepe dell’anima e dei tempi con la sua irriducibile soggettività, quella che l’arte esalta come atto di ribellione. Si ostenta e si sottrae per sondare le strade dei territori del sacro e dell’umano attraverso le seduzioni, gli errori, l’ansia più disperata e volgare. Per salvare almeno un gesto, un respiro, una possibilità.