Anno 1 Numero 40 Del 24 - 11 - 2008
Il melodramma o l’arte delle rivoluzioni mancate
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
A parte tutto, il genere per cui gli italiani sono famosi nel mondo è il melodramma. Sarà per via del fatto che la musica non ha frontiere, sarà per il fatto che per almeno un paio di secoli l’italiano è stata, internazionalmente, la lingua ufficiale all’opera, ma non c’è poesia, dramma, romanzo, film che sia in grado di competere con la Bohème, Tosca, il Don Carlos, Traviata o Lucrezia Borgia in quanto ad immagine del Bel Paese nel mondo. Sono tutte storie di rivoluzioni mancate, ubriacature romantiche piene appunto di melanconia. E allora l’aggettivo “melomane” potrebbe designare sì gli appassionati di questo genere musicale, ma per assonanza potrebbe fornire un identikit anche dei protagonisti di tali vicende, di quelle inventate, come Rodolfo, Violetta, Mario, e di quelle vere, che invece riguardano un po’ tutti noi. Eh sì l’aggettivo “melomane” (se lo facciamo discendere neo-etimologicamente da “melo-mania”), con quella vaga assonanza che lo associa all’idea di maniacalità e dunque di patologia sembra proprio attagliarsi allo spirito del popolo italiano. Il colpo d’occhio è immediato per chiunque passi un periodo anche breve al di là dei confini nazionali. Al ritorno, quel clima da Ottocento, da opera lirica, da rivoluzione sognata titanicamente, ma appunto sognata, salta all’evidenza di occhi meno assuefatti.
Gli ingredienti ci sono tutti e rigorosamente intercambiabili (come nelle vecchie compagnie di giro), i buoni(sti) che consegnano al cielo i loro propositi di cambiamento (riformista), i cattivissimi laidi e bugiardi (col trapianto di capelli e la tinta), i buoni(sti) che vanno in Africa per adottare (a distanza) mandrie di bambini e i cattivissimi che per definire quelli con la pelle nera passano da uno sprezzante “abbronzati” (quando sono giornalisti o presidenti degli Stati Uniti) ad un più classico “bingo-bongo” (quando sono semplici immigrati). I buoni(sti), paladini continuamente insidiati dall’umana imperfezione dei propri colonnelli e i cattivissimi solidi nella compagine e pronti a marciare “come un sol uomo”. E in mezzo ai poli, per fare il quadro drammaturgico più completo, le mezzane e gli sgherri, i Villari (giusto per stare alla stretta attualità) e i redivivi squadristi.
Eccolo qua il melodramma già pronto. Gli ingredienti ci sono tutti, precotti e pronti ad amalgamarsi appena spunta fuori un libretto buono. Il carrozzone, col suo carico di nasi finti, è pronto a ripartire.
E gli Italiani stanno a guardare, come appunto i melomani, che vanno all’opera a “sentire fortemente”, a sognare la rivoluzione nelle Fiandre di Don Carlo e Rodrigo, facendo battere il cuore al ritmo del più bel duetto della storia della musica, oppure a piangere con Tosca che chiama Mario senza risposta e lancia l’ultima maledizione a «Scarpia davanti a Dio!» prima di gettarsi dal castello. Poi riprendono i loro cappotti, salgono sull’autobus, e per dirla alla napoletana “se vann’a cuccà”.
Insomma, ecco, la melo-mania degli italiani è una grande forma d’intrattenimento compulsivo di massa. Ogni giorno una storia nuova da seguire e poi domani si vedrà. Si segue la fiction politica come fosse vera, si segue la politica in televisione come fosse fiction. Si soffre, veramente, a volte, anzi spesso si paga, in una forma di meticciato col reality show collettivo. Ogni volta sul piatto c’è la voglia di cambiare le cose, di fare la rivoluzione, ma poi... E’ sempre un destino più grande quello che mutila i sogni degli eroi melodrammatici, un destino da maledire, ma a cui arrendersi restando appassionatamente a guardare, in platea, ancora una volta, la stessa opera.

P.S.
Italiani, popolo di melomani, amanti della musica e del canto. Nessuno escluso. Da quelli che si commuovono con le parole dell’inno di Forza Italia (esistono!) a quelli volevano una nuova era della politica e poi si sono ritrovati al Circo Massimo il 25 ottobre a cantare “bandiera rossa” sulle note dell’inno nazionale. E gli studenti? No, loro ci stanno provando veramente. Eppure il rischio di mandare segnali contraddittori c’è. Il rischio che l’assenza di un segnale al momento giusto venga avvertito come segnale negativo e il loro movimento venga percepito nello spirito delle rivoluzioni mancate di altri molteplici melodrammi. Pensano a ristrutturare il futuro, è vero, pensano a rifondare il sistema. Ma l’uomo della strada, l’uomo che legge il Corriere della sera per capire come va il mondo, l’uomo che non fa distinzione fra le scorie del passato che si riversano sul presente e il lavorio dell’oggi che tende a edificare il domani, quell’uomo che vede la realtà solo sui piani sovrapposti dell’attualità oggi potrebbe dire: dov’erano gli studenti in queste settimane mentre si truccavano i concorsi per i 3000 posti da ricercatore? E qualcuno potrebbe rispondere: in un’altra piazza, a cantare.