Un'immagine dallo spettacolo
Un'immagine dallo spettacolo "Sonja"
La scena di
La scena di "Long life"

Anno 1 Numero 40 Del 24 - 11 - 2008
Vita d'interni
“Sonja” e “Long life”, a Le Vie dei Festival un dittico sulla malinconia del regista lettone Alvis Hermanis

Mariateresa Surianello
 
In Italia, il nome di Alvis Hermanis circola da un triennio, ma in maniera epifanica. Per questo la scelta di Natalia di Iorio di incentrare le romane “Vie dei festival” sul lavoro del regista lettone ha un po’ il sapore della scoperta e insieme della definitiva consacrazione. Classe 1965, fondatore e direttore del Nuovo Teatro di Riga, Hermanis è apprezzato in tutta Europa, da Edimburgo ad Avignone, ma gira anche in Sudamerica. Lo scorso anno, tra l’altro, gli è stato conferito il Premio Europa Nuove Realtà Teatrali, a Salonicco, dove – accomunati dal medesimo previsso - premiata è stata anche un’altra personalità teatrale dell’Est, Biljana Srbljanovic, anche lei ex, jugoslava, come Alvis Hermanis è ex, sovietico.
Al Teatro India, che in questi giorni ha ospitato Sonja e Long life, Hermanis addirittura c’era già stato, nel 2005, per il Festival dell’Unione dei Teatri d’Europa, ma quella volta aveva portato una produzione della Schauspielfrankfurt, Das Eis (Il ghiaccio) e non la sua compagnia. Ora invece col focus di Cadmo, il regista ha mostrato due spettacoli particolarmente significativi della sua poetica, due lavori diversi, ma molto simili per la capacità di toccare l’intimità profonda dello spettatore e quindi di emozionare. Interessante anche il ribaltamento cronologico della programmazione, Long life, del 2003, è stato proposto dopo Sonja, che Hermanis ha messo in scena tre anni dopo, nel 2006, quasi fosse un restringimento dell’obiettivo, un andare ancora più a fondo nell’intimità che veniva scoperta in Long life.

Con Sonja (lo scorso anno si è visto a “Vie Scena Contemporanea” di Modena), tratto da un racconto della scrittrice russa Tatiana Tolstaya, si entra in una sorta di stanza della memoria, condotti da due ladri d’appartamento, con tanto di volto coperto da una calza. Nel rapido cambio di registro della pièce, che coincide col travestimento di uno dei due, compare la figura della protagonista del titolo, immediatamente pronta ad avviare il suo menage quotidiano di solitudine e misere gioie. Guidata dalla voce ironica e sprezzante dell’altro, che diviene narratore, Sonja si trascina per la stanza, silenziosa e malinconica, eseguendo ogni minimo gesto suggerito da quella voce. Gli occhi fissi e persi nel vuoto e la testa (con i bigodini) inclinata sembrano richiamare con smaccata parodia i motivi dell’iconografia classica della melanconia (può essere utile Saturno e la melanconia di Klibansky, Panofsky, Saxl). Farcisce torte, mette al forno polli e si cuce vestitini fiorati di pessimo gusto con un bisogno di dare e darsi cieco e disperato, che magnetizza lo spettatore. In una scenografia realistica prende forma l’esistenza grottesca di una donna brutta e stupida, oggetto di scherno da parte dei vicini, che arrivano all’estrema perfidia, quando inventano per lei uno spasimante, appassionato, sposato e grafomane. Per uno scherzo atroce e senza ritorno, inizia una lunga relazione epistolare, un amore folle che solo la guerra, arrivata fino a Leningrado, può annullare nella tenebre della tragedia mondiale.

In Long life, che appunto nel percorso creativo di Hermanis arriva prima di Sonja, la narrazione è invece affidata esclusivamente al dettaglio scenografico, di un realismo scioccante, tanto è minuzioso nella ricostruzione dei particolari che fino alla fine ci si meraviglia di scoprire, e a una partitura fisica ineccepibile a storpiare corpi ed espressioni del volto. Il resto è solo un borbottio continuo, incessante. Una cantilena significante di una condizione estrema eppure ancora vitale. Quando viene rimossa la quarta parete – uno alla volta si levano i pannelli che chiudono la scena – davanti agli occhi degli spettatori si apre un museo dell’intimità domestica stratificata da anni di vita vissuta in uno stesso spazio. Siamo in un appartamento coabitato da cinque vecchi, due coppie uomo-donna e un uomo singolo, che osserviamo dal mattino, al risveglio, e fino a sera, di nuovo al letto. Un giorno come un altro vissuto col bagno e la cucina in comune, in quelle stanze piccole e piene di pezzi di vita, in cui ogni azione minima dà senso al resto dell’esistenza. Davvero struggente questo affresco calligrafico che si fa portatore di un tema tabù della nostra società, la vecchiaia.
E quasi a voler ancora insistere a giocare col tempo e col suo inesorabile trascorrere, il regista lettone è approdato ora a The sound of silence (da noi ha debuttato a Napoli, lo scorso giugno, al Teatro Festival Italia). Ha preso i cinque vecchi di Long life e li ha riportati in quello stesso appartamento collettivo, quaranta anni fa, nel 1968. Un altro lavoro senza parole, costruito su una colonna sonora di Simon & Garfunkel, perfettamente descrittiva di quell’epoca. I magici anni che Alvis Hermanis considera quelli della nostra “ultima utopia”.