Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 41 Del 1 - 12 - 2008 |
Un altro pianeta |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
E’ pieno inverno. A Roma ha iniziato a fare freddo davvero. Al cinema, “un solo” cinema in una metropoli di milioni di abitanti, esce Un altro pianeta, film girato per intero sulle spiagge del litorale romano. A Capocotta, precisamente, sulle cui dune campeggia la bandiera arcobaleno. E un mare triste sbatte continuamente contro lo schermo, un mare pieno di vento che innesca un cortocircuito visivo con tutto quanto c’è intorno, con l’inverno, con le figure che su quel sabbioso piano metaforico si muovono nude e con l’Italia di oggi, vestita, intabarrata e mascherata al punto da non essere più riconoscibile. E un cortocircuito, più bruciante ancora, lo genera con il passato, in un gioco di specchi che moltiplica l’immagine amplificandone la vertigine, passando dall’idroscalo in vespa del Caro Diario di Moretti, fino alle sequenze televisive di Pasolini che corre su quelle stesse dune in una giornata coperta e ventosa. Anche il nome del cinema in cui lo danno, il film, Nuovo Olimpia, sembra giocare a questo geloso decadentismo huysmansiano che si attacca alle immagini per chiudere un vuoto che invece si allarga man mano che ad esse ci si stringe. E alla fine, quando si torna indietro a piedi, sotto le luci gialle di Montecitorio, sottotiro a decine di telecamere, alla fine di un film in cui per tutto il tempo non si è visto altro che spiaggia a perdita d’occhio, allora, sembra di camminare sul bilico di un cratere silenzioso. In quelle mezze frasi spezzate, nei discorsi interrotti, i gesti nervosi, trattenuti o liberati, che costituiscono la partitura linguistica di questa pellicola di Stefano Tummolini, c’è il vocabolario intero di una generazione postuma, della prima generazione che sta al di là della linea della Storia, illuminata di taglio dalla mannaia del suo tramonto e collocata su una spiaggia, che in fondo è appunto l’analogia dantesca di un limite, di una fine cui attende chi è stato lentamente scansato per far posto a qualcun altro, scansato fino al bordo della terra, dove la Terra appunto, assomiglia alla luna, ad un altro pianeta. Era in un articolo sul Corsera del 24 giugno 1974 che Pasolini parlava appunto delle facce, dei gesti e della loro incertezza, dei comportamenti che allora, ma non diversamente da oggi, costituivano l’essenza di un linguaggio e di una identità culturale (quella italiana) che ha chiuso con la parola e con la possibilità attraverso di essa d’essere capita. Parliamo tutti uguale, forse pensiamo tutti uguale, ma appunto allora sono quegli strattoni, quei conati d’esistenza, quegli svenimenti abissali a costituire brandelli di verità radicali, le reazioni biologiche, i rigetti naturali, ad una omologazione linguistica e di sensi il cui abbraccio si dirada ai confini del mondo, restando impigliato fra i rovi delle dune, oltre cui gli uomini, naturisti o meno, sono veramente nudi e si muovono uno incontro all’altro in un equilibrio fragile, prodotto delle molteplici menomazioni, che dall’infanzia subiamo per far posto agli arti meccanici richiesti obbligatoriamente per l’immatricolazione in società. Ci dimostra questo un film “indipendente” che senza industria, senza niente, stava lì, come un pensiero che aveva preso forma e che tornava insistentemente in ogni strappo del vento nella città vuota all’una di notte, nella città eterna, ingessata nei suoi palazzi di Stato. Così tra le garitte dei Carabinieri ostaggi delle piazze vuote, tra gli occhi dei monitor a circuito chiuso persi nel niente e ubriachi d’immobilità, sembrava d’avere avuto per le mani qualcosa che, non si sa bene come, ma dava l’impressione d’essere una utopia raggiunta, o meglio ancora, raggiungibile. Questa pellicola, costata poche centinaia di euro, in fondo, pareva riconsegnare la dignità di una lingua ad una generazione che appunto non ne aveva più alcuna proprio perché da decenni ne ha una sola e priva di significati. Eppure quella spiaggia delle utopie raggiungibili, coi suoi nudi abitanti, sembra così distante dalle strade vuote di questa città notturna, in cui gli unici abitanti sembrano scolorati sotto i lampioni, mascherati, intabarrati nei loro cappotti-doppiopetto o nelle loro ben riconoscibili uniformi da branco. Sagome di quelli che Pasolini definiva fascisti, e in relazione ai quali appunto («parlo soprattutto di quelli giovani»), proprio in quell’articolo di quasi trentacinque anni fa, auspicava la necessità di una lingua attraverso cui espiare le colpe di «noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra», che in tutti questi anni, fino ad oggi, «non abbiamo fatto nulla […] perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati […] ma nessuno di noi ha mai parlato con loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentati inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti diciottenni che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione». Parlare allora, con l’utopia di una lingua in cui salvarsi, la stessa che Tummolini lascia aleggiare in quella spiaggia che sembra lunare ma che è radicalmente terrestre, la spiaggia da cui, con tutta probabilità, Pasolini guardava al continente notando come, secondo una legge eterna della Tragedia antica, ancora oggi, le colpe dei padri non smettano di ricadere sui figli facendo tornare a sanguinare ciò che non è stato guarito. Anche allora, la sua riflessione indicava un’utopia a portata di braccio, quella dell’essere presenti e interlocutori, un’utopia a misura d’uomo in cui non abbiamo creduto, o meglio in cui non abbiamo voluto credere, preferendogli allora, come simbolo di civiltà, lo stupore dei viaggi lunari, del progresso abbacinante, e degli assordanti scudi spaziali, insomma cose di un altro pianeta. E’ appunto con questi pensieri, che qualcuno può essersi imbattuto nella grande installazione di Liu Jianhua dal titolo Dream, ospitata fino a febbraio dalla Galleria Continua di San Gimignano. Un grande cumulo di cocci rotti, di oggetti in ceramica di ogni tipo, riproducenti, ruote d’automobili, computer, stivali, scarpe da donna, borse dell’acqua calda, telefonini, ammonticchiati a formare il corpo di uno shuttle, il Columbia, che nel 2003 si disintegrò nell’atmosfera al rientro dalla sua missione. Un’immagine drammatica che continua a ripetersi a loop sul grande schermo che campeggia come un altare alla sommità dell’installazione, un altare eretto all’uomo-icaro e ai cui piedi stanno schiantate le macerie di un’utopia irraggiungibile, quella di andare verso un altro pianeta, un altro che non sia il nostro. |