Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 42 Del 8 - 12 - 2008 |
Le voci di Santiago |
A “Più libri più liberi”, fiera della media e piccola editoria un focus sul Sud America e una lezione dal Cile (di storia e di teatro). |
Attilio Scarpellini |
«Qui non scorrerà mai del sangue vero» è la frase che sigilla Fin del Eclipse, uno degli spettacoli del drammaturgo-regista cileno Ramòn Griffero, con un omaggio, come scrive Katia Ippaso nel libro che ha curato per l’Eti Le voci di Santiago “alla cultura finzionale del teatro”: difficile non ricollegarla immediatamente, in un corto-circuito che l’autrice definisce “felice” al copioso sangue finto che la Societas Raffaello Sanzio ha fatto colare sulla scena di Bruxelles, uno degli spettacoli italiani ospitati alla XV edizione del festival Santiago a Mil a cui il libro è in gran parte dedicato. Il finto e il vero sono agli estremi del teatro che per Griffero è un “anticorpo della globalizzazione”, una sorta di strumento omeopatico per curare la falsità che ci circonda: un ordine della realtà che si spaccia per naturale mentre è completamente avvolto dalla finzione ideologica. L’autore di Fin de l’eclipse ha ragione in più di un senso: un sangue vero – atrocemente referenziale – scorre a fiumi sugli schermi di You Tube o negli spot da notte allucinata (si veda in questo numero l’articolo di Emanuele Giordana) in cui le televisioni di mezzo mondo hanno rinchiuso la strage di Mumbay, declinandola in un mantra visivo degno delle immagini – mille volte riavvolte e ripetute – dell’11 settembre del 2001. Un sangue vero, del resto, scorre nel passato cileno scaturito da un altro 11 settembre, quello del 1973, quando i militari golpisti, istigati e foraggiati dagli Usa di Henry Kissinger, seppellirono il fragile esperimento di democrazia socialista tentato da Salvador Allende. Ma la frase di Griffero sarebbe meno comprensibile, restando confinata nei limiti di una dichiarazione di poetica, se, sfogliando questo strano libro in cui le voci si richiamano e si riprendono da una parte all’altra, non ci si imbattesse in un’intervista con Arturo Fontaine in cui lo scrittore di Cuando éramos immortales, parlando delle paure del Cile odierno, dice: «Questa è un società che ha fatto esperienza della violenza in modo angosciante, di conseguenza la maggior parte della gente non vuole sentir parlare in termini estremi di nulla, compresa la politica, molti sono contrari alla radicalità della politica, ne hanno paura appunto. Qualche volta questa reazione è esagerata (…)». Fontaine trova questa paura eccessiva e teme di vederla involvere in una specie di idiosincrasia per il conflitto in quanto tale, ma è indubbio che coniugando la sua parte di virtù – traducendola in prudenza, la virtù di Jaffier in Venezia salva – si capisca meglio perché un gran conoscitore del Cile come il giornalista Omero Ciai nel suo contributo alle Voci di Santiago, indichi nel Cile di Michelle Bachelet – una donna, figlia di una vittima di quella ghenga di avidi aguzzini che deviò il corso della democrazia cilena - il primo “paese normale dell’America Latina”. Normale non è una gran parola, tanto più nell’accezione dalemiana che assume in Italia: è opaca, poco risonante e per di più carica di tutta quell’ambiguità della legge che, nel suo rapporto necessario con la violenza, Romeo Castellucci (utilizzando la lezione di Walter Benjamin se non quella di San Paolo) ha letteralmente eviscerato proprio sulla scena di Bruxelles, suscitando – stando a quanto registra la Ippaso nella sua cronaca – le reazioni entusiastiche del pubblico cileno che nella sua Tragedia ha riconosciuto la propria catarsi. Eppure, “normale”, ha quanto meno il potere di disinnescare il mito e smorzare le luci degli spot con cui la storia in versione mediatizzata – e tendenziosamente estetica – acceca il destino dei popoli e degli uomini. E nella percezione occidentale, l’America Latina, dopo essere stata a lungo quella parte di mondo che secondo Rymond Aron occupava sulla carta geografica uno spazio spropositato rispetto alla sua importanza politica, è rimasta intrappolata nei miti politici che ha prodotto senza sosta: patria sconfinata di caudillos di destra e di sinistra - peronista, castrista, poi chavista ed evista - laboratorio di sperimentazione del liberismo più sfrenato a cui poteva rispondere solo il populismo più generalizzato, terra di elezione del realismo magico, luogo di sacrifici mai a corto di sangue per nutrire le astrazioni della storia. Se il Cile di Michelle Bachelet sembra fare poco notizia per un’informazione così affamata di sensazioni al punto di vivere ogni catastrofe come un’imprevista riserva spettacolare è perché ha deviato da quella linea del mito e del sangue che, come Jean-Luc Godard ha detto in anni non sospetti, è solo l’altra faccia della medaglia del disincanto e del denaro. La catarsi non è un genere giornalistico, è il prodotto di un gesto artistico che, per dirla con Alexis Moreno, un altro degli autori cileni recensiti dalle Voci di Santiago “rappresenta la vita attraverso un’altra vita”. L’arte non fa informazione, rappresenta, racconta, costruisce metafore – grandi metafore aperte da ogni lato dalla ferita del reale, grandi metafore incarnate come il sorprendente Neva di Guillermo Calderon – l’arte non informa, forma, partecipa di una bildung, e quando smette di farlo annega nell’intrattenimento, naufraga nel mercato o illanguidisce nella cultura come bene statale ma non più pubblico (letteralmente: senza più un pubblico). Le voci di Santiago potrebbe essere un qualunque libro di teatro che assembla contributi e materiali nascondendo nell’umiltà di una scrittura di servizio l’incapacità o l’impossibilità di osare un testo. E’ il contrario: l’onda spezzata di una scrittura che registra l’incontro non solo tra due teatri – quello italiano e quello cileno – e in questa miniatura, tra due mondi, ma, per una volta, l’incontro tra il teatro e quell’immenso oggetto che, fuori dai suoi confini, è l’ oggetto della sua necessità artistica. Di conseguenza, è sia il racconto mediato della catarsi cilena, filtrata dallo sguardo dei suoi artisti, sia il racconto diretto, continuamente insorgente, di un fenomeno per niente scontato agli occhi del nostro mainstream culturale: la necessità del teatro nella formazione di una coscienza nazionale, dove per nazionale bisognerà finalmente intendere “pubblica e democratica” e non lo scarto di un’identità residuale schiacciata tra il locale e il globale, tra il preistorico e il post-moderno. Non basta sapere che il festival Santiago a Mil (Santino a mille) è una kermesse per cui passano settecentomila persone, estesa a trenta teatri della cintura periferica della capitale – anche se i numeri danno le vertigini soprattutto se li si misura sui quindici milioni di persone che abitano il paese – e che questa effervescenza riflette la ritrovata potenza della vita di strada cilena dopo la dittatura. Bisogna leggere le parole del suo direttore artistico Carmen Moreno: «A Santiago a Mil portiamo il teatro di ricerca e il teatro per chi non ha mai visto uno spettacolo in vita sua…per noi gli intellettuali e gli altri sono tutti uguali. Tutti abbiamo la stessa immaginazione, non c’è bisogno di separare». E metterle in rapporto con quelle di Pippo Delbono che a Santiago ha portato il suo Enrico V e i Racconti di giugno: «Riuscire a dare valore di semplicità alla cultura per me è un fatto molto importante. Fare cultura affinché tutti capiscano. Che è molto diverso dal fare una cultura populista». Un teatro popolare senza populismi era il programma di Vilar ad Avignone: il problema non è affatto, dunque, nella difficoltà dei linguaggi impiegati dalla scena contemporanea, ma nella loro capacità di offrirsi all’ascolto popolare – di provarsi nell’ascolto di chi “non ha mai visto uno spettacolo” (Bernanos diceva di scrivere per chi non ha mai letto un libro, ben sapendo che molti di quelli che considerava i suoi lettori ideali non sapevano neanche leggere: forse solo il teatro e un teatro che dia ancora molto da leggere può realizzare questo paradosso). Come? Tornando a rappresentare “una vita attraverso un’altra vita”, cioè ad accettare l’anacronismo del segno, il suo spostamento da una contemporaneità di mera e immediata presentazione a un tempo presente che nella visione scenica ritrova quel che sta perdendo, la sua durata, il suo senso. In libreria: Le voci di Santiago. Dall’Italia al Cile lungo la rotta del teatro. A cura di Katia Ippaso, Eti-Editoria & Spettacolo, Roma 2008, 207 pagine, 20 euro |