Benedetta Cesqui in una scena dello spettacolo
Benedetta Cesqui in una scena dello spettacolo
Monika Mariotti nella figura del
Monika Mariotti nella figura del "padre"

Anno 1 Numero 43 Del 15 - 12 - 2008
I vivi e i morti
Ha debuttato al Teatro India “Magick” di Lucia Calamaro

Attilio Scarpellini
 
Del sulfureo Georges Denis, pranoterapeuta e mago, protagonista di uno studio presentato in estate, resta poco o nulla nella versione di Magick che Lucia Calamaro ha allestito al Teatro India. Ma non è un gran danno: il nuovo Autobiografia della vergogna (Magick) gioca su ben altri piani il suo carisma, la sua magia, dispiegando fin dalle primissime battute – quando il sipario è ancora abbassato e la voce fuori campo sembra percuoterlo – la sua potenza squisitamente teatrale. Non è uno spettacolo riuscito: è uno spettacolo memorabile destinato a segnare una svolta espressiva in un teatro che, finalmente, torna ad esserci contemporaneo. Basta un attimo, mentre il sipario si alza lentamente e lascia scorgere tra i piedi delle attrici la sorprendente distesa dello spazio scenico dell’India disseminato di libri come foglie morte in autunno, per capire che questa visione in controluce ha la precaria ma invincibile perfezione dei sogni. Dalla finestra del fondo una luce cangiante rivela uno squarcio di natura – è la prorompente vegetazione di fiume che circonda l’India – ogni volta diverso: verde brillante – con il fogliame che ghiaccia nel vento temporalesco – giallo autunnale, rosso mistico e sanguigno, un orologio di umori caricato dal genio luminario di Gianni Staropoli. Il teatro è un “altro” mondo che di questo cattura le parvenze per restituirne la perturbante metamorfosi: un’ora dopo i libri sparsi a terra finiranno appiccicati alle pareti in un frenetico cambio scena dove l’orizzonte limbico dell’inizio si organizza in biblioteca (e precisamente, nella biblioteca Richelieu di Parigi), giocando una seconda volta sulla profondità dello spazio come possibilità di modificazione onirica. Prima di stanza in stanza, nell’universo scoperchiato di una bolla familiare, poi di corridoio in corridoio in una Biblioteca di Babele, dove finalmente risuona, confuso ad altri titoli, il suggestivo Magick del malvagio Crowley. Nell’installazione dei suoi altrove, Lucia Calamaro ricorda Kantor, ma non si accontenta di una figurazione icastica: sulla sua scena allucinatoria, scrive e nel contempo legge, come Cartesio che nel famoso sogno raccontato da Bailly vedeva e decifrava insieme. Scrive e legge una fenomenologia della vergogna che – non ci sarebbe nemmeno bisogno di sfogliare gli appunti teorici che precedono il testo edito da Voland – è una patologia dello sguardo, l’epifania della fine di se stessi (della propria de-soggettivazione) nello sguardo degli altri. E per questo un sentimento acutamente pre-politico che tocca il ventre molle dell’immoralismo italico, il nucleo originario, in un certo senso, di tutte le questioni morali: la famiglia.  Autobiografia della vergogna è una tragedia familiare raccontata da tre clown d’oltretomba che nel loro antinaturalistico essere e non essere – figlia, padre, madre – riescono a trasformare una storia catafratta nella biografia individuale dell’autrice nella parabola per tutti e per nessuno di una vergogna universale che si nasconde dietro ogni porta sbarrata dal segreto e dietro ogni sguardo segregato dalla paura degli (e per gli) altri. Che la Calamaro non tema di tradurre sulla scena la complessità di una scrittura che accoglie nel suo corpo anche il pensiero (e la citazione) è, dopo tanti pinterismi di maniera, un segno di maturità della nostra drammaturgia. Che per due ore di spettacolo ogni parola del suo poema diluviale vibri come se venisse generata in quel momento dalla tremula carne delle interpreti – Monika Mariotti, Benedetta Cesqui e la stessa regista – è più che inedito, quasi sublime. Ma persino nei teatri, talvolta, il teatro accade.

Poetica dello sguardo (che spia o che si nega), estetica della vergogna: è il segreto il nocciolo duro del dramma di Magick, autoritratto in forma di spettacolo che nella controluce del biografema lascia trasparire il ritratto di un’italietta familista e provinciale sempre pronta a occultare dietro la porta (“Chiudi la porta che ti devo dire qualcosa”) i suoi vizi e i suoi odi, le sue malattie  e i suoi malati - ma anche, come ben spiega il Padre, a utilizzare l’omertà e l’omissis come strumento di divisione e di controllo: “bisognava sapere e non dire/ e comunque a persone diverse/ mai/ la stessa cosa// dividere per comandare, controllare”. La vergogna è anzitutto segregazione dello e dallo sguardo: nel segreto affonda e lentamente illanguidisce la Madre, negata prima per la sua origine sociale – il Padre borghese ha messo incinta e segretamente sposato la cameriera di casa – poi per la precocità della sua demenza, come se solo una letterale evanescenza dell’essere potesse rispondere all’annientamento simbolico di cui è oggetto. Dal segreto, tara di origine della vita familiare, promana il contagio di una vergogna sintomatica che si trasmette di Madre in Figlia, sotto forma di ritorsione dello sguardo nell’esilio di una vita secondaria. Nel segreto – anzi nella “cultura del segreto, del nascondarello” - affonda le radici il godimento irresponsabile del Padre, la sua fuga, il vuoto del suo sentimentalismo da cui Monika Mariotti che in scena ne traveste il fantoccio trae struggenti arie pucciniane (altro stigma, dopo la provincia, dell’identità italiana: la perennità del melodramma e l’inconsistenza del tragico). Se la Calamaro avesse voluto parlare di archetipi, insomma, non ci sarebbe riuscita altrettanto bene di quanto ha fatto rovesciando negli stampi della sua scrittura scolpita, precisa fino a divenire esausta, la colata bollente di una materia spudoratamente biografica: operazione già tentata – e riuscita – nel precedente Tumore. Uno spettacolo desolato.  Qui come là, in realtà, è il diaframma filosofico a filtrare il caso, l’anomalia, senza arretrare neanche davanti alla definizione, perché la vergogna si comporta appunto come un archetipo, che in ogni singola incarnazione fa riemergere la propria antecedenza: “la vergogna precede se stessa, in un certo senso, tanto che quando fa irruzione nell’esperienza noi la riconosciamo come un’ombra errante che aspettava di incarnarsi.” Non si potrebbe dir di meglio, su una scena oltremondana dove le ombre vagano, vergognose o senza vergogna, salmodiando ciascuna la propria verità e misurando, senza mai colmarla, la propria distanza con l’altro: presenti-assenti, viene voglia di dire, ma soprattutto sperdute in uno spazio che è la nemesi della loro clausura esistenziale. “E’ quando una casa brucia – diceva Kafka – che si vede la struttura che la sorregge”. Casa senza porte: all’opposto del dramma borghese. Casa senza porte, ma non aperta in un agorà (dove il teatro sarebbe tribunale, giudizio): all’opposto del dramma politico. Dilatata nel perturbante come nei sogni dell’infanzia. Spazio non di riconciliazione. Né di liberazione. Forse di espiazione.

In libreria: Lucia Calamaro, Autobiografia della vergogna (Magick), Voland, pp. 160, 13 euro.