Tim Crouch
Tim Crouch
Una scena dello spettacolo di Accademia degli Artefatti
Una scena dello spettacolo di Accademia degli Artefatti

Anno 1 Numero 43 Del 15 - 12 - 2008
Chi è presente alzi la mano
L’Accademia degli Artefatti torna su Tim Crouch e affronta “My arm”

Mariateresa Surianello
 
Sarà perché il luogo ci è divenuto familiare, ma il My Arm che l’Accademia degli Artefatti ha allestito, a Roma, al Rialtosantambrogio ha proprio soddisfatto le nostre aspettative di spettatori. Preciso ed essenziale nel rimbalzo tra realtà reale e riprodotta in video, da creare un ritmo dialogico, e a tratti corale, in una pièce monologante. E poi in quel totale annullamento di barriere tra la scena e la sala risiede forse l’essenza della ricerca che sta impegnando il regista Fabrizio Arcuri per il progetto “ab-uso”. Oltre a corrispondere alle modalità di intervento performativo dello stesso autore, Tim Crouch, di cui si è visto recentemente il suo An Oak Tree direttamente in spazi espositivi (al Madre di Napoli, con la regia di Carlo Cerciello, per esempio, per il Teatro Festival Italia).
Secondo appuntamento questo My Arm per Arcuri (il primo è stato lo stesso An Oak Tree) con il drammaturgo e attore britannico, che molto successo sta avendo anche in Italia, con le sue opere poste su quella linea di confine, molto labile per la creatività contemporanea, che separa la rappresentazione teatrale dalle arti performative. Come in questa, il cui primo allestimento è stato a Edimburgo nel 2003, segnando il debutto nella scrittura di Crouch. Portata in diversi Paesi, My Arm è stata adattata per la tv britannica BBS, vincendo il Prix Italia nel 2005. Un meccanismo quindi rodato, che Fabrizio Arcuri imbrocca con particolare maestria, perfezionando i risultati ottenuti con Martin Crimp e in parte anche con Mark Ravenhill.

Quando si entra nella sala del Rialto, Matteo Angius è seduto tra il pubblico e sembra l’addetto al video proiettore, a sorpresa invece si alza e inizia il suo monologo, esercitando un immediato coinvolgimento degli spettatori. Chiede loro degli oggetti personali a caso e inizia a chiamarli con altri nomi, una sciarpa, un cappello, un portaocchiali, nelle sue mani, possono addirittura diventare personaggi della storia che si accinge a raccontare. Una storia tanto raccapricciante quanto assurda, eppure verosimile nella falsità della scena. Un bambino chissà per quali disequilibri familiari comincia a compiere atti di autocoercizione, che all’inizio possono essere il silenzio assoluto per qualche giorno o il non andare in bagno per un mese, ma poi approdano a un gesto semplice e insensato nella sua irreversibilità. Il bambino solleva un braccio e in una sfida con se stesso e col mondo intero lo mantiene in quella posizione per venticinque anni, fino all’atrofia e alla cancrena. Il protagonista ha infatti trent’anni quando col pubblico torna ai nodi cruciali di quello che suo padre definisce un atto di volontà. Spedito dallo psichiatra, il bambino diventa adolescente, ragazzo e infine adulto, condannato a quel suo atto di potenza. Non che sia molto diversa questa condizione dal tunnel dell’anoressia, da quella possibilità di controllo di un bisogno primario spinto fino al delirio dell’annullamento corporeo.

Tra le risate che provoca la storia, il gioco di relazione col pubblico si fa sempre più serrato, mentre Angius si riprende in diretta con la telecamera o costruisce dei teatrini con quegli improbabili oggetti presi in prestito dal pubblico. Ogni tanto compare in scena Emiliano Duncan Barbieri per interrompere con la sua chitarra rockeggiante il flusso delle parole. Sul fondale intanto il filmino in super8 di un neonato paffutello e giulivo lascia il posto al ragazzo ormai cresciuto, che insiste in quella sua posizione. E’ bravo l’attore a interagire col video che scorre implacabile, imponendo e serrando il ritmo dell’azione. Sono le riprese spudoratamente false di un passato vissuto con quell’assurdo impedimento, ma “in realtà” riconosciamo essere quel set tutt’altro che il posto dell’adolescenza del ragazzo sull’isola di White, è il piazzale del Teatro India con le due cisterne.
Anche la descrizione dettagliata dei disturbi provocati dall’infausta posizione non recano disagio tra gli spettatori, il clima di complicità resta sempre alto, perché lo scopo non è commuovere, ma scuotere il pensiero. Quello che Tim Crouch vuole tentare è lo svelamento del rapporto tra attore e spettatore, vuole provare a scendere nelle dinamiche della finzione in relazione alla realtà. E nella falsità delle cose che ci circondano, dagli oggetti alle persone. C’è da riflettere sul parossismo finale della storia di Crouch con quel corpo deformato e marcito che si fa pura essenza reificata, cancrena mercificata ad uso e consumo di spietati mercanti d’arte contemporanea.