Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 44 Del 22 - 12 - 2008 |
La seconda repubblica di Filippo II |
Estremamente attuale il “Don Carlo” che ha aperto la stagione della Scala |
Gian Maria Tosatti |
La Scala non avrebbe potuto aprire con opera più appropriata in questo 2008. Le trame di un intero anno, fino a quelle degli ultimissimi giorni, sembrano intrecciarsi alla vicenda di Don Carlo e della Spagna controriformista. Il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, sul palco del più prestigioso teatro del mondo inizia una rappresentazione cui effettivamente pochi hanno prestato attenzione. Si è molto parlato dei vari accidenti occorsi prima dell’alzata di sipario e sono stati ripresi (quando non direttamente fatti) sui giornali i commenti più imbecilli, cui ha risposto la dignità di Daniele Gatti e degli artisti che sul palcoscenico sono stati sommersi da fischi che avevano la stessa tonalità del grande rumore di fondo che in Italia si produce in ogni piazza mediatica per opera di politicanti urlatori e dame da salotto sdrucito (tale è quella contessa che ha avuto il gusto di dichiararsi “infastidita” dalla stazza del tenore Stuart Neill affermando che a terra «sembrava una balena arenata»). Eppure proprio la figura di Neill è la prima chiave sensibile di un’edizione estremamente efficace di quest’opera che in fondo parla della difficoltà di rispondere alla chiamata eroica. Conoscendo, infatti, la storia spagnola e poi il libretto, vien da dire che non sia il tenore ad essere fuori misura, quanto appunto Don Carlo, un ragazzo ventenne cui è chiesto un coraggio che neppure suo padre, l’uomo forse più potente della terra, possiede – quello di difendere il primato imperiale di fronte a quello ecclesiastico facendo cessare le persecuzioni e l’autodafé del popolo fiammingo di confessione calvinista. Eccolo Carlo entrare in scena e poi il suo amico d’infanzia Rodrigo, vero eroe della vicenda. Quest’ultimo elegge l’Infante salvatore degli oppressi dall’Inquisizione. Un auspicio che mostra tutti i suoi limiti già nel primo dialogo fra i due, in cui la mente di Carlo sembra già stremata dal peso delle sue umane passioni. Ancora una volta nel bellissimo duetto “Dio che nell’alma infondere”, giureranno fedeltà alla loro amicizia e alla causa della libertà. E in questa scena è già tutto chiaro quel che in quest’allestimento diventa addirittura cristallino, complice la sensibilità di Neill, capace di rendere con l’ottima voce e la recitazione estremamente credibile la figura di un Carlo perennemente vacillante, perennemente in disequilibrio, un Carlo appunto imprigionato in una figura troppo grande e ingombrante. Lui e Rodrigo (un ottimo Dalibor Jenis) si stringono e sullo sfondo si ripete come in un flashback dell’infanzia quella stessa ritualità di gesti che i due da bambini avevano già fissato preparandosi ad entrare nei rispettivi ruoli di eroi eletti dalla Storia. Basterebbe questa scena, la migliore mai riuscita nella rassegna degli allestimenti di quest’opera, per giudicare la regia di Stéphane Braunschweig come uno strumento affilato tanto da entrare fino in fondo nei risvolti dell’opera. Ed è appunto in questo paragone, fra i due bambini che giurano con sicurezza incrociando le spade di legno e i due adulti in cui l’abbraccio di Rodrigo sembra lasciare senza forze Carlo, che si consuma già l’intera tensione dell’opera verdiana. Davanti a Carlo, si apre la prospettiva della Storia e lui l’osserva quasi impietrito, sentendosi troppo debole e forse troppo distratto per affrontarla. Opposte alla vacillante volontà dell’Infante, che viene subito disarmata dalla sua stessa isteria per mano dell’amico Rodrigo, le figure del re (un Ferruccio Furlanetto che domina le proprie sfumature meglio di quando esordì nel ruolo con Karajan nell’’86) e del Grande inquisitore, uno di fronte all’altro nel celebre duetto di bassi del terzo atto, sembrano due titani troppo forti perché si possa anche solo respirare sotto il peso della loro ombra. E proprio in questo dialogo tesissimo, diretto e chiaro come una odierna intercettazione telefonica, in cui il testo e la musica danno il meglio di sé, i due rappresentanti del potere decidono (in uno scambio di favori) la castrazione (attraverso la morte di Carlo e Rodrigo) delle nuove generazioni e del “pensiero novator”. L’epilogo è scontato, l’uccisione di Rodrigo che vede ancora una volta Carlo perdere la lucidità e infine la morte dell’Infante, salvato dalle grinfie del padre dalla visione di Carlo V che esce dalla sua tomba per strappare il nipote alla scelleratezza degli uomini, ci portano al lamento ed al silenzio in cui da anni si spengono gli aneliti delle nostre generazioni, schiacciate da un’Italia cupa, in cui le foto dei grandi vecchi sui giornali non differiscono troppo dalla rassegna di opprimenti teste coronate che all’epoca dei fatti si affacciavano dai ritratti su sfondo nero. Eh già, dunque, l’epoca dei fatti. Siamo negli anni in cui Dostoevskij ambienta la sua versione del Grande Inquisitore, ossia in un momento in cui per chiunque, per Gesù Cristo stesso, risorto nel racconto russo, trovare un posto nella Storia sembra impossibile. E non è per la violenza repressiva dei roghi, quanto appunto per la cappa oscura di superstizione e timore che ha coperto l’occidente per oltre un secolo fino a sembrare un muro di gomma contro cui s’annulla ogni speranza di cambiamento. Visto in questa prospettiva Carlo dunque non può sembrare un egoista quanto un uomo mutilato nell’anima dal proprio tempo, a cui non è rimasto che il cuore e il suo dolore primordiale, l’unico che sia ancora in grado di sentire. Soccomberà allora per l’impossibilità di farsi trovare eroe di fronte alla Storia e soccomberà anche Rodrigo, mente miracolosa, illuminata in un tempo buio, che fino all’ultimo darà la vita nella speranza che l’amico possa spogliare l’autorità che opprime il proprio popolo e dare una nuova speranza a spagnoli e fiamminghi. Così si chiude una delle opere più scure e amare del repertorio verdiano e non solo. In sala i giornalisti raccolgono i commenti del parterre de rois della prima. Molti, fra i più politici, accusano l’allestimento di eccessiva cupezza, dichiarando che in questo momento di crisi ci sarebbe voluto maggiore ottimismo. I giornalisti non si fanno scrupolo di riportarlo nei loro articoli, quasi fosse un’osservazione sensata. E in effetti, la regia di Braunschweig un peccato lo commette. Ambientando l’opera nel suo giusto tempo dimostra di aver confidato nel fatto che il pubblico avesse quel minimo di acume che accecò d’ira e di rimorso re Claudio di fronte al teatro dei comici istruiti da Amleto. Ma è un peccato veniale, perché tale è stato solo il giorno della prima. All’anteprima con gli studenti il messaggio è passato chiarissimo e pure gli altri giorni. |