Anno 2 Numero 01 Del 12 - 1 - 2009
Dedica ai numi per il secondo anno di verità
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Sembra una coincidenza, ma spesso il destino sceglie i momenti in cui siamo distratti per portarci via le persone importanti. Nel 2008 è successo due volte. Con i due scrittori che forse più di tutti hanno saputo parlare del grado zero dell’umanità, di quell’elemento primitivo e originario che definisce l’identità dell’uomo. Il 3 agosto, mentre tutti eravamo al mare, è morto Alexandr Solzenycin. Il 24 dicembre, mentre ci preparavamo per la cena di Natale è morto Harold Pinter. Entrambi premi Nobel, entrambi autori di meccanismi letterari capaci di spogliare la realtà fino al suo strato finale, entrambi simboli di un impegno politico assunto in prima persona.

Nelle edizioni clandestine di Arcipelago Gulag, prima di venir esiliato, Solzenicyn scriveva con chiarezza che se i cittadini in ogni condominio sovietico si fossero organizzati per spaccare la testa agli agenti della Ceka, che di notte venivano a portare via la gente, probabilmente si sarebbe riuscita ad evitare la più grossa e prolungata ecatombe del ‘900, i cui primi complici furono proprio il silenzio e la paura. All’ambasciata americana in Turchia, nel 1985 Pinter dichiarò, senza mezzi termini, davanti a tutti, lo sconcerto per le torture che aveva visto perpetrare in quel Paese ai danni del popolo curdo. A seguito di ciò egli venne cacciato immediatamente dagli uomini della sicurezza (seguito dal suo amico Arthur Miller, cui era dedicata la serata). Sono solo due esempi tra i molti che testimoniano come queste due figure abbiano assunto costantemente e con fermezza un ruolo di coscienza politica per il proprio popolo.
Scrivere Arcipelago Gulag – che non è neppure un romanzo – sotto il regime sovietico degli anni Sessanta può sembrare una pura follia, un errore di calcolo, tanto quanto andare a dichiarare di fronte all’Accademia di Svezia, durante la cerimonia per il conferimento del Nobel che il proprio primo ministro Tony Blair sarebbe dovuto essere, a rigor di logica e secondo il diritto internazionale, processato dalla International Criminal Court of Justice. A ben guardare, tuttavia, questa condotta evidenzia un’estetica del minimalismo nel pensiero che arriva ad un millimetro dal nichilismo senza raggiungerlo e rovesciandosi quindi nel suo opposto. Pinter e Solzenycin si sono spogliati di tutto ciò che non fosse essenziale, la loro convenienza, il loro ruolo sociale, per arrivare al punto. E tale è l’estetica che, infatti, li accomuna anche come autori. I protagonisti dei romanzi di Solzenicyn sembrano uomini delle caverne, primitivi, cui la deportazione ha tolto tutto, in una sorta di ascesi inversa, riducendoli a pura essenza, a miracoli viventi e testimoni della grazia originaria dell’essere umano. L’uomo, nella concezione del romanziere, è l’unica cosa che resta dopo la catastrofe e dunque è la salvezza stessa. Ed è sempre l’uomo, così come Pinter intende menzionarlo nell’ultima frase del suo discorso svedese, quell’essere colpevole, controverso, debole che per tutta la vita egli ha esposto come termine minimo dell’esistente nella nudità di una parola che secca la gola a prounciarla ogni volta che prende corpo nelle sue “stanze di concentramento” al di fuori delle quali appunto non esiste altro.

Se si confronta con quasi tutto il resto delle pagine scritte, quella di Pinter e di Solzenicyn non sembra neppure letteratura. Tanto quanto il taglio dell’occhio nel Chien andalou di Dalì – Boñuel (film, tra l’altro, amato dal drammaturgo inglese) non sembra cinema pur essendone la quintessenza. Arrivare alla sintesi del gesto secco, della parola a doppio taglio, dell’autobiografismo più clinico è un’operazione chirurgica compiuta sulla realtà di fronte ad una tribuna di spettatori silenti e sbalorditi come nella Lezione d’anatomia di Rembrandt.
A seguito di quell’incidente diplomatico in Turchia, Pinter scrisse Il linguaggio della montagna, un breve dialogo che un decennio dopo avremmo letto più o meno fedelmente riportato nelle confessioni dei militari americani assegnati al carcere di Abu Ghraib. Leggendo Pinter nel 1988 leggemmo la realtà prima che essa si lasciasse leggere sui giornali anni dopo. Allo stesso modo leggendo Ceneri alle ceneri, forse la sua opera più bella, abbiamo letto la verità sull’Europa del Novecento prima che la Storia avesse, anzi, avrà maturato il sufficiente distacco per occuparsene in prima persona.

Il lavoro di questi due autori su tutti gli altri dimostra dunque come leggere la realtà con gli occhi dell’arte sia una delle possibilità che ci è data per capire ciò che ci sta intorno prima che sia tardi, prima che sui giornali diventi cronaca del giorno prima, cronaca di quel che ormai è accaduto. Seguendo tale considerazione è nata questa rivista. Dopo un intero anno di pubblicazioni aprire il primo numero del nuovo anno dedicandolo ad uno dei due padri fondatori, scomparsi entrambi mentre eravamo sul campo, ci sembrava doveroso, il segnale migliore per iniziare un nuovo anno all’inseguimento della verità in un momento in cui il silenzio o le frasi di circostanza (sempre vuote e senza senso) dalla Palestina al Darfour, coprono l’o-sceno (ossia ciò che non possiamo vedere direttamente coi nostri occhi) in un grande spettacolo scadente.