Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 2 Numero 03 Del 26 - 1 - 2009 |
L’invisibile che incombe |
C’è molto più di quello che si vede nella mostra d’arte contemporanea “As-Is” sui sessant’anni di Israele |
Attilio Scarpellini |
Strano anniversario, vien voglia di dire, quello che il 31 gennaio si conclude al Vittoriano di Roma con la chiusura della mostra As-Is, arte contemporanea israeliana, nata per celebrare il 60mo compleanno dello stato ebraico. Forse non c’è un’opera tra le oltre 50 esposte, fatta eccezione per la foto “Ulivi decapitati” di Shai Kremer – nel suo ricordare un cimitero di ceppi islamici – che possa essere considerata all’altezza dell’evento che nel frattempo tracima sulle pagine dei giornali e nelle immagini televisive. Eppure non ce n’è una in cui la presenza dell’altro, del nemico, non incomba in una maniera o nell’altra. Tra le finte case arabe del Panorama del centro di formazione alla guerriglia urbana di Tze’elim immortalate dallo stesso Kremer, nei ritratti familiari di Vardi Kahana tirati sotto una luce che sembra quella dei film di Dreyer, nelle superbe vedute grandangolari di Barry Friandler (che richiamano, per più di un verso, le messinscene moltitudinarie di Wang Qinsong), ma anche nelle sculture metaforiche di Eretz Israeli che, come nel caso di “Terrorista”, sembrerebbero esporlo - l’altro attende fuori di scena, si annida sullo sfondo dove innominato, sovente rimosso, finisce per costituire il presupposto invisibile di qualunque rappresentazione. Come certi pittori rinascimentali, Elie Shamir ritrae se stesso di spalle nell’atto di dipingere con l’aiuto di uno specchio ovale, ma il suo studio non sprofonda in una camera oscura, si apre nella luce accecante (per chi la conosce, unica al mondo) di un paesaggio brullo e sterminato. L’opera, del 2001, si chiama Autoritratto con panorama. Difficile non pensare, guardandola, che esista una definizione migliore dell’identità israeliana tra quelle filtrate dalla mostra curata da Ruth Cats: un frammento di specchio che riflette un volto solitario incastonato in un paesaggio desertico. Spazio è una parola difficile – e in un certo senso tragica - per Israele. Tempo sembra rendere più giustizia alla sua cultura della parola e della memoria. Ma il paesaggismo israeliano presente ad As Is, pittorico o fotografico, sembra vivere lo spazio come tentazione permanente di una fuga dal tempo che puntualmente ritorce sull’immagine la sua caduta “umana, troppo umana”: tutti questi “panorami” si rivelano come altrettante drammaturgie scandite dall’economia ristretta della storia e dell’identità, cioè dalla guerra. Shai Kremer li ha chiamati infected landscape, paesaggi infetti: uno di essi rappresenta il “muro di protezione” che separa il quartiere gerosolimitano di Gilo dalle zone palestinesi. Il muro è stato decorato in trompe l’oeil (come i palazzi restaurati nel centro delle città europee) e un albero dipinto riprende l’albero reale che è segregato al di là della parete, come se una trasparenza fosse ancora possibile attraverso la ferita che le barriere fisiche alzate dalla politica di sicurezza hanno inferto al paesaggio: in realtà la rappresentazione su cui l’occhio rimbalza, per essere respinto al di qua, mistifica la militarizzazione dello spazio che a sua volta nasconde l’altro allo sguardo del medesimo – il palestinese allo sguardo dell’israeliano – murandolo dietro un confine impolitico. Nella fotografia digitale di Kremer il muro è ancora in costruzione e nel punto in cui si interrompe il vero orizzonte riprende la sua corsa: due bambini sono ritratti proprio mentre varcano quella frontiera tra la rappresentazione e la realtà, sul filo del muro, come due esseri sospesi. Il trompe l’oeil – il trompe l’oeil della politica di sicurezza e della lotta al terrorismo – è il vero regolatore dello sguardo israeliano e delle sue autorappresentazioni: una vita normale (e un’arte visiva normale, cioè normalmente globale, come orgogliosamente la rivendica Naomi Aviv nel suo saggio sul catalogo della mostra pubblicato da Gangemi) che ha interiorizzato lo stato d’eccezione fino a restituirlo con un segno ironico, quotidiano – soldato e cittadino, soldato e giovane fanno tutt’uno in questo paese – ma senza riuscire a cancellarne il carattere perturbante. E’ sempre la fotografia che parla, tra le opere esposte a Roma, più che la pittura e l’installazione (parla nella direzione opposta a quella formalistica indicata dallo scritto della Aviv, perché continua a parlare con la lingua indiziaria che Benjamin riconosceva nelle immagini parigine di Atget). E c’è un’immagine di Pavel Wolberg che parla con un’eloquenza impressionante. E’ stata scattata per le strade di Tel Aviv nei giorni di Purim, il carnevale ebraico: mostra un ragazzo e una ragazza di spalle che si affrettano, probabilmente diretti a una festa; entrambi sono mascherati da ballerina, con il tutu trasparente e le scarpe con il tacco. Tutto normale in una normale visione di travestitismo occidentale, accesa dal corpetto rosa indossato dall’uomo che gli lascia scoperti i fianchi - fatta eccezione per un dettaglio, per il punctum, come lo chiamava Barthes, che rompe il contesto dell’immagine e ne scandisce di nuovo la drammaturgia: l’uomo porta a tracolla un fucile mitragliatore. E’ sulla scura, metallica evidenza del mitragliatore che l’immagine vistosamente si concentra fondendo in essa i suoi contorni glamour. Gli israeliani sono come noi (dei travestiti), ma con il mitra sulla spalla (da qui a dirci che gli israeliani sono l’avamposto orientale del nostro diritto a travestirci e a non essere rinchiusi in una sola identità, il passo è per altro brevissimo, così breve che il neoconservatorismo mondiale lo compie ogni giorno: e l’oscurità del mitra comincia a emanare fascinosi bagliori di civiltà). Ma nel contempo anche il mitra potrebbe rientrare nell’atmosfera farsesca dell’immagine, come un elemento carnevalesco, ironico – basta guardare i quadri di Nir Hod per capire quanto l’arte contemporanea israeliana sbeffeggi il machismo dell’immagine militare del paese – un’arma giocatolo neutralizzata dalla sua stessa quotidianità. E spingerci a chiederci se questa arma in trompe l’oeil è davvero in grado di sparare. Il nemico è lontano, il nemico incombe: il tempo di Israele, anche demitizzato dalla modernità visiva, resta un tempo assediato dalla sua invisibilità, una normalità che lo stato d’eccezione avvolge in una bolla, sempre pronta a scoppiare. Come la descrive Itai Mautner nel suo scritto sul catalogo: “Si potrebbe pensare Per un m o m e n t o Che tutto va bene, Che siamo normali. Che la realtà lo permette. Che la vita è più forte di qualsiasi ideologia. Che i caffè sono pieni (…) Che Israele è il posto giusto dove stare. Che la Tel Aviv del 2008 è più cosmopolita, colta variopinta che mai. Che l’arte fiorisce, le gallerie prosperano (…). Che lì fuori è bello. Si sta bene. E tutto il resto del mondo perde d’importanza di fronte a questo piccolo paese con due strisce blu e una stella di Davide in mezzo. A questo punto qualcuno prende uno spillo. Non è particolarmente grande. Né particolarmente aguzzo. Uno spillo insignificante (…) E accade l’inevitabile. Non esiste forza al mondo che possa fermarlo. I ripetuti tentativi, gli sforzi disperati e il sincero desiderio di evitare l’incontro, non hanno mai avuto alcun successo. E’ così da sessant’anni ormai…Eppure ci lascia sempre sbigottiti. Ogni volta daccapo (…) Ogni volta ti sorprende nel momento meno adatto.” Nello scritto di Mautner manca solo la domanda (e la risposta): “cosa”? Nel fatum dell’incontro inevitabile (il testo inglese recita proprio encounter) terrorismo e repressione sommaria si confondono producendo lo stesso bang, evento abbacinante dove l’altro, segregato dietro una cortina di misconoscenza, riappare in forma esplosiva. Il Terrorista scolpito da Erez Israeli: un nudo neoclassico con la testa coperta da un passamontagna su cui stazionano degli uccelli impagliati. A questo punto il mitra spara. Gaza è qui, stella morta carica di cadaveri su cui la dolorosa credibilità dello stato di Israele – che resta tale nelle bellissime foto della saga familiare di Vardi Kahana – vive il suo ennesimo collasso, sempre a un passo dall’essere definitivo. Irrompe nel rovescio inquieto di ognuna delle rappresentazioni ordinate nelle sale del Vittoriano per un anniversario a cui manca sempre un invitato, un ospite indesiderato. E come sempre, l’orrore dell’altro sconfina in quello per noi stessi. «Ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza- ha scritto David Grossman - ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall'esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore». |