La locandina del film
La locandina del film
Una scena dal film
Una scena dal film

Anno 2 Numero 04 Del 2 - 2 - 2009
Voglio essere Tony Manero!
Brama di riscatto e banalità dell’orrore nel film di Larraín trionfatore a Torino

Mariateresa Surianello
 
Colori smorti, cerei, sbiaditi, come se un lurido filtro stesse oscurando la luce del sole. Già con le primissime inquadrature il cileno Pablo Larraín definisce il contesto sordido della vicenda di Tony Manero, azzeccato titolo della sua seconda prova registica che al Torino Film Festival di Nanni Moretti ha fatto incetta di premi, miglior film e migliore attore al protagonista Alfredo Castro. Una pellicola dura e di non facile visione ha confezionato questo regista poco più che trentenne che usa la macchina da presa come una levatrice di incubi, per scavare nel rimosso collettivo e tentare di leggere il presente con una nuova coscienza. Senza mostrare le nefandezze del terrorismo di stato, Larraín, che si è fatto le ossa nel mondo dell’advertising ma è stato anche assistente di Miguel Littin (cineasta militante ed esule, esponente del nuevo cine germogliato sull’onda della Unidad Popular), ha creato una metafora portatrice di un messaggio facilmente decodificabile nel depauperamento dell’identità individuale e collettiva con la colonizzazione culturale statunitense, che però solo il messaggio secondo svela in tutta la sua mostruosità. Un gioco allegorico che, per quanto cruento esso sia, si normalizza, proprio si annulla nel vissuto quotidiano di quei lunghi anni di terrore, aperti in Cile col colpo di stato dell’11 settembre 1973 e la morte di Salvator Allende.

Ambientato nel 1978, in una Santiago periferica e assediata dagli squadroni della morte del generale Augusto Pinochet, capo di una delle dittature militari più feroci e sanguinarie del secondo Novecento e ben coordinato con gli altri governi fascisti latinoamericani del Cono Sud attraverso il Piano Condor, a sua volta orchestrato e finanziato dagli Stati Uniti di Nixon e Kissinger, come i documenti declassificati nel 2000 da Bill Clinton hanno definitivamente provato, il film è un ordinario quanto orribile interno di famiglia allargata, il cui maschio adulto, un cinquantaduenne ballerino fallito, ha trovato nel prodotto più commerciale di Hollywood un idolo da emulare, un ridicolo motivo indotto dall’assurda società messa in piedi da una banda di criminali dietro la bandiera liberista dei Chicago Boys. E’ il Tony Manero di John Travolta de La febbre del sabato sera, con l’indimenticabile strascico di disco music dei Bee Gees, che anche in Italia in quello stesso anno – uno dei più bui della Repubblica – trionfava nelle discoteche ormai gonfie di proseliti della nuova generazione di teen-agers, sbandata dopo la fine del Movimento del ’77 e l’eroina immessa massicciamente sul mercato.

L’obbiettivo di Larraín indugia sui primi e primissimi piani di Alfredo Castro, che dà il volto all’attempato danseur Raùl Peralta, rendendo subito opprimente l’atmosfera. Quasi claustrofobica, l’inquadratura raramente si allarga sul mondo esterno e, quando accade, è in soggettiva, spesso traballante e fuori fuoco. Sono immagini sporche quelle che il regista confeziona come a mutuare il suo linguaggio dalla realtà del protagonista. Una realtà violentissima, che aleggia tutto intorno, rubata dalla macchina da presa per pochi istanti, con il piano sequenza dell’inseguimento di un giovane gettato giù da una scarpata, per poi stringersi di nuovo sul particolare, un’espressione o un’infima azione di Peralta. E gli bastano poche sequenze per disegnare la natura di Raùl, la follia omicida che si annida dentro l’apparente semplicità di una vita emarginata. La casualità con cui ammazza all’inizio del film l’anziana signora, poco prima soccorsa e riaccompagnata a casa, provoca nello spettatore un trasalimento insopportabile, che si trasforma immediatamente in una dolorosa tensione, di cui non riesce a liberarsi per l’intera durata del film. Raùl uccide per rubare un televisore, con la stessa naturalezza con cui il regime fascista di Pinochet rapisce, tortura e fa sparire migliaia di persone, e poi torna al cinema a rivedersi per l’ennesima volta quel Saturday night fever del suo riscatto sociale. Studia ossessivamente ogni gesto, ogni passo e fino all’ultima battuta del suo beniamino Manero-Travolta. Senza nulla intendere, ripete anche la battuta del crocifisso che nel film di John Badham arriva con la crisi mistica del fratello prete di Manero, invece a Larraín (cosceneggiatore con Mateo Iribarren e lo stesso Castro) pare non serva ad altro che a dimostrare lo stato di totale obnubilazione del disgraziato Raùl Peralta, quel crocefisso che è solo un uomo morente in croce. E quale altro senso potrebbe avere Gesù Cristo nel Cile di Pinochet?

Mentre nel misero bar che funziona anche da pensione per tutta “la famiglia” prosegue le prove del suo spettacolino per gli avventori di qualche disperato sabato sera, Raùl non perde l’occasione di uccidere un trucido rigattiere per procurarsi dei mattoni trasparenti sufficienti a costruire un effetto di luci sul pavimento dello scalcinato palcoscenico. Tra coreografie raffazzonate, lo squallido menage di Peralta trova uno sbocco all’impotenza, anche sessuale, nell’annuncio di uno show televisivo che sta cercando il Tony Manero cileno. L’illusione accecante del successo rende quest’uomo ancora più simile a tutti gli uomini e a tutte le donne di quel paese, ciechi di fronte al bagno di sangue che ha ricoperto il Cile per quasi due decenni. Anche quando la polizia segreta entra nel bar, e interroga i due giovani della famiglia, Raùl guarda la scena dall’alto della scala senza vedere oltre il vestito da Tony Manero che ha indosso e scappa dalla finestra verso il riscatto della ribalta televisiva. Non ci sono sentimenti, né passioni a frenare il suo solitario delirio di onnipotenza.

Un film come se ne fanno pochi, bellissimo e necessario, questo Tony Manero, distribuito dalla Ripley’s Film. Da vedere in fretta prima che sparisca dai pochi cinema italiani che lo programmano (a Roma naturalmente è ospite del Nuovo Sacher - e del Mignon). Parla del nostro presente, del Cile e di tutto l’Occidente, è di pochi giorni fa l’apertura a Santiago di un museo dedicato all’impunito generale Pinochet, nella sua residenza in quegli anni di morte.