Una veduta della mostra, a sinistra lo spot girato da Roman Polansky, a sinistra la sala con le stampe
Una veduta della mostra, a sinistra lo spot girato da Roman Polansky, a sinistra la sala con le stampe
Una delle gigantografie (Tamara de Lempicka)
Una delle gigantografie (Tamara de Lempicka)

Anno 2 Numero 05 Del 9 - 2 - 2009
Il non-oggetto del desiderio
“Greed by Francesco Vezzoli”, il profumo che esiste solo in pubblicità

Attilio Scarpellini
 
Dura appena un  minuto, Greed a New Fragrance by Francesco Vezzoli, il video diretto da Roman Polansky che introduce il percorso espositivo attorno al readymade dell’artista bresciano alla Gagosian Gallery di Roma. Ma condensa una tale congerie di cliché pubblicitari – dalla patinatura dell’immagine alla microstoria che racconta – che non si sa bene come considerarlo: glamour e ammiccante, è degno degli spot del peggior Campari, ma bisognerà anche riconoscere in questo l’unico vero segno di intelligenza dell’intera operazione concettuale di Vezzoli. Trattandosi di un non-prodotto, preso a prestito e taroccato dalla Belle Haleine di Marcel Duchamp – un cortocircuito originario tra l’arte e il sistema della moda – Greed, l’eau de larmes che sulla maxiboccetta espone l’immagine dello stesso Vezzoli non ha nulla di nuovo, anche perché l’unica fragranza che ha solleticato il naso dei visitatori il giorno dell’inaugaurazione è stata quella, volutamente nauseabonda che un qualche buontempone ha sprigionato nella affollata Main Exhibition Room dello spazio romano lanciando una bomboletta puzzolente. Blanda provocazione, che a fatica può essere registrata come una notizia, visto che, a dispetto dell’apparato che introduce e circonda Greed, che lo sostiene e lo legittima, siamo decisamente nel campo dell’aneddoto. E’ sufficiente leggere le poche righe di presentazione che accompagnano il progetto per rendersene conto: «Francesco Vezzoli – si legge sul comunicato stampa – indaga l’ambiguità del concetto di verità, la potenza seduttiva della comunicazione e l’instabilità dell’uomo (sic!) attraverso l’indubbio potere dei media nella cultura contemporanea». Questo potere è talmente indubbio (e tale deve restare) che Greed può essere considerato la sua celebrazione inerziale, la resa definitiva dell’immaginario dell’arte a quello dei media, dove l’unico richiamo alla diversità (della bellezza, dell’arte e della stessa icona femminile) è trattato in modo giustamente funerario dalla galleria di testimonial involontarie che, affisse alle pareti della sala, presiedono all’epifania del bottiglione di cristallo ambrato by Francesco Vezzoli. Da Frida Khalo a Leonor Fini, da Tina Modotti a Giorgia O’Keefe, dieci rappresentanti d’eccellenza (anche nelle sue performance dal vivo, Vezzoli ha un debole per lo star-system) dell’arte al femminile e del femminismo artistico novecentesco, appaiono tirate in Inkjet su fondi di broccato finemente ricamati. Le uniche lacrime sopravvissute dell’eau de larmes di Rose Sélavy sono quelle che pendono dai loro occhi sporgenti, cristallizzate in pietre da bigiotteria o condensate in piccole strisce di stoffa come sbavature di rimmel.

La verità, come recita il comunicato, non potrebbe essere più ambigua: dobbiamo credere al volto severo della O’Keefe, forgiato dal vento caldo del deserto del New Mexico in cui scelse di ritirarsi a dipingere, o a quella “fotografia di una fotografia”, per citare Don DeLillo, a quello “spot degli spot” girato da Polansky dove Natalie Portman e Michelle Williams si litigano con aggressive (quanto fittizie) movenze lesbiche una confezione della “brama” in cui – non oltre, ma rassegnatamente dopo Duchamp – Francesco Vezzoli ha sintetizzato il naufragio di cinque secoli di arte?  Se è allo statuto del desiderio che allude il titolo del prodotto (e dell’annessa campagna di marketing), è difficile spostarsi dalla riflessività in cui esso appare imprigionato nello spot: due donne elegantemente vestite (una bionda e una castana) si accapigliano per impadronirsi della bottiglietta di Greed, rotolandosi sul pavimento e mimando persino una violenza brutale, fin quando accanto al profumo rovesciato non compare la scarpa di pelle di un uomo, intravisto soltanto di spalle. E il perturbante di quell’agone, che inizia in una vicinanza ambigua, quando una delle due respira (qui ancora il senso letterale della “haleine” duchampiana in qualche modo persiste) un profumo estraneo sul corpo dell’altra, viene riassorbito e vanificato dall’equilibrio apollineo di un modello di comunicazione che lo utilizza come gancio per rendere commerciabile anche il suo fantasma. Il potere del brand vi è perfettamente esemplificato: non vendiamo un profumo, ma per l’appunto l’illusoria fragranza di un desiderio che appartiene e a tutti e a nessuno. Più esattamente: l’avidità della merce è l’accchiappasogni in cui si impiglia qualunque desiderio, poiché, come pensava Debord – ed era il 1967 – la sua accumulazione totalizza l’intero immaginario. Lo spettacolo è il “capitale a un tale grado di accumulazione che diventa immagine”.

Bisognerà allora congratularsi con Vezzoli per aver mostrato, per l’ennesima volta, il grado sempre più estremo di vaporizzazione a cui è giunto il valore d’uso nel momento in cui la merce assurge a fantasma del desiderio e il desiderio non può che investire, nel suo tragitto, la merce? No, perché Greed non è che il rispecchiamento anestetico (ripeto l’aggettivo: inerziale) di questo processo e dunque la sua celebrazione attraverso il sistema dell’arte che continua ad essere puntato sulla realtà come un cannocchiale rovesciato. Varcate le colonnine della Gagosian Gallery, in realtà, nessuna critica è possibile, ma solo una ricaduta su se stesso del mondo così com’è. L’arte contemporanea è un treno fermo su cui indugia un passeggero ancora indeciso se credere alle indicazioni del capostazione, che si ostina a non fischiare la fine del viaggio, o alla mancanza di autorità della propria percezione.