Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 2 Numero 05 Del 9 - 2 - 2009 |
Deus ex machina |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
Effettivamente l’immaginario è un mondo molle, fatto di mercurio, attraversabile, rapido, sfuggente, liquido, fatto di desideri e paure, incubi e sogni. E’ come nel romanzo di Alice, che attraversa lo specchio per trovarci la realtà stessa nel suo più profondo stato di autocoscienza. Ed essa è sempre popolata di mostri con cui spesso iniziano lunghissime lotte che lasciano imbrigliati, che non fanno più uscire. Eppure talvolta entrare nel mondo dell’immaginario, attraversarlo, diventa un passaggio obbligato – come nel caso della psicanalisi - per proseguire una certa direzione, per poter veramente andare oltre. L’immaginario diventa il fiume che si deve superare a nuoto e che divide due tronconi di strada, quella da cui si viene e quella verso cui si va. Ed esso è il luogo multidimensionale, in cui ci si deve immergere per ricostruire qualcosa che è andato in pezzi oltre la fisica, oltre le tre dimensioni, e che ha sparso i suoi frammenti anche sui piani del tempo (4a dimensione) e della coscienza (5a).
Per finire dentro lo specchio ci sono molte trappole sparse. Una delle più irresistibili è l’Otello di Shakespeare, la cui lettura non è lineare. Essa contiene in più punti delle botole dentro cui cadere per procedere in un percorso parallelo al libro in cui si sostituiscono ai volti della storia e alle circostanze drammatiche altri volti e altre situazioni vissute dal lettore, impresse o obliate. La tragedia del Moro di Venezia, effettivamente, è una specie di sofisticata spirale che riproduce il meccanismo della caduta irreparabile. La sua tensione parabolica costituisce una forza centrifuga che attrae il lettore trascinandolo forzatamente verso la fine contro la sua volontà. Ad un certo punto dell’intreccio, un punto che può variare a seconda del lettore e di quale delle diverse trappole drammaturgiche possa essergli fatale, si comincia ad avere il “sentimento” della fine, ossia si comincia a realizzare come tutto porterà all’inevitabile morte di Desdemona. A quel punto si inizia ad opporre una sfiancante resistenza al libro. Una resistenza inutile, ogni volta, che tuttavia si consuma in un campo che non è quello letterario. La resistenza del lettore non è dentro il libro, è fuori, in uno spazio parallelo appunto, uno spazio ibrido che segue ineluttabilmente il plot shakespareano (perché esso è in accordo con le leggi dell’esistenza), ma che si contamina delle immagini riprodotte in tutte le carte coperte che stanno nel mazzo identitario del lettore. Carte che neppure lui conosce, carte che ha coperto nel tempo, e che pure lo fanno temere per l’epilogo. Il mazzo delle carte coperte, una sull’altra, costituisce una lunga colonna vertebrale, la colonna che tiene l’edificio umano, coi piedi per terra, in ordine alla gravità della vita. Tutte le volte che si legge l’Otello finisce nello stesso modo. Desdemona muore, innocente, per mano del suo sposo e con essa muore anche l’innocenza del Moro e quella del lettore che in esso si identifica. Non si scappa mai. Ogni volta, la lettura di Otello ci macchia. Però a ben guardare, leggendo con una attenzione particolare, una volta di più si può scoprire come alla fine ci sia un punto, una botola ulteriore che William Shakespeare ha lasciato aperta, ma che nessuno ha mai avuto la fortuna di trovare. E’ l’uscita di emergenza. Un salto di fede che esce dalla legge della vita e anche da quella della drammaturgia elisabettiana evitando lo schianto, lasciando che tutta la resistenza accumulata si liberi in una propulsione verso l’alto. Questa botola l’ha trovata Gaetano Ventriglia, che nel suo Otello (in scena in questi giorni all’Ambra Jovinelli di Roma) ha identificato il momento in cui il Moro passa attraverso lo specchio, il momento in cui esso si trova al di là della vita e della morte, quando l’oscurità del suo gesto cala sui suoi occhi come una cataratta di mercurio. In quell’istante egli non appartiene più a nulla, egli si immerge nel regno dell’immaginario per trovare una via d’uscita alla spirale portandosi dietro tutti gli spettatori, unendo con loro la forza della resistenza per far decollare un’astronave. Sì, un’astronave che aspetta lui e Desdemona sulla spiaggia di Cipro, per portarli via dalla miseria del delitto in cui sono precipitati. E c’è da giurare che essa decollerà, come il carro del Sole che rapisce Medea. Ventriglia, in uno dei passaggi più poetici che il teatro contemporaneo abbia mai scritto, recupera il Deus ex machina, un elemento del teatro tragico greco che rappresenta appunto la via d’uscita, la salvezza dalla catastrofe. Un elemento che la tragedia moderna, quella sviluppatasi assieme alla retorica cristiana, ha deciso di non recuperare. D’altra parte il suo intervento evidenzia spesso l’ambiguità dell’elemento divino, la sua contraddizione spesso aperta con il senso di giustizia. Una prospettiva che ben si accordava col paganesimo politeista, ma che risulta inconciliabile con lo spirito delle religioni monoteiste, in cui l’elemento divino e il senso di giustizia coincidono fino ad incarnarsi l’uno nell’altro. Ma tutto questo è retorica. Nei fatti, ogni divinità, dal dio austero degli ebrei, alla cricca di ubriaconi dell’olimpo greco, fino al dio paterno dei cristiani, tirato sempre per la tunica da qualcuno, dimostra ogni giorno le sue infinite contraddizioni anche agli occhi dei suoi fedeli, agli occhi di quelli che, seguendo Sant’Agostino, capiscono come la pretesa di comprendere la Sua volontà per mezzo di un sistemino di comandamenti o di “circolari” del sacro ministero sia quanto di più ingenuo ed inutile. E’ per questo motivo che il Deus ex machina di Gaetano Ventriglia funziona, anche oggi, salvando tutti quelli che assieme all’artista foggiano stavano per finire definitivamente inchiodati alla croce delle proprie miserie. Eh già, Deus ex machina, ossia la liberazione per intervento delle macchine, un tema di grande attualità mentre si discute d’eutanasia. |