Una prostituta in strada
Una prostituta in strada
Il calendario di Sabrina Ferilli, il pił venduto della storia
Il calendario di Sabrina Ferilli, il pił venduto della storia

Anno 2 Numero 06 Del 16 - 2 - 2009
Hoc est corpus meum
Riflessione tra carne e immagine

Attilio Scarpellini
 
Il ministro Mara Carfagna ha avuto l’inaudita sfrontatezza di definire “orribile” la vendita del proprio corpo da parte delle donne che lo vendono per strada. Perché questa sfrontatezza è inaudita? Risposta: perché è innocente. C’è una rimozione istintiva, spontanea in questo giudizio che non può non ritorcersi sulla biografia di chi l’ha pronunciato: vittima di quel moralismo che è il supplemento d’anima di tutte le sconfitte politiche, una velina di regime divenuta ministro altro non può fare che rilanciare sul piano (moralistico) al quale stava per essere inchiodata. A moralista, moralista e mezzo – ma anche, a puttana, puttana e mezzo: quelle vere, tragiche, degradate, orribili, siedono altrove - sulle latte rovesciate nelle no man’s land tra campagna e città, o sui gradini delle casupole del centro storico di Roma, ormai invecchiate come sepolcri - non sui banchi del parlamento o del governo. Quelle vere vendono il proprio corpo e non la propria immagine: e con ciò, da una parte si respingono al mittente i sospetti, le dicerie sulla professione della signora Warren, cioè sulla carriera del ministro in questione (sospetti ormai seppelliti, e giustamente, dalla decisione della magistratura di secretare le intercettazioni che hanno per oggetto i rapporti tra il premier e il suo ministro), dall’altra si pone fine a una confusione, si ristabilisce un confine tra la prudèrie dell’immaginario e la secca determinazione del referente, mettendo da parte ogni possibile inquietudine del significante. E il referente della prostituzione, dice la signora Carfagna, è indubitabilmente il corpo nel suo osceno scambiarsi con il denaro. Anche se diventa difficile capire cosa risulti più osceno: il potere sovversivo, arcaico, esorbitante (puramente entropico) che la sessualità continua a esercitare sulla potenza del potere e sul prestigio del denaro – ricordate il caso Lapo Elkann? – o la possibilità che, nel commercio sessuale, la natura predatoria di ogni libero mercato possa improvvisamente saltare agli occhi.

Perché a una certa ora della notte, come diceva Georges Bernanos, è sempre “il ricco che mangia il povero”. La bassezza ha un gusto e ai piani alti dell’esistenza – quelli in cui la vita è straordinariamente estetica, lieve, frizzante – questo sapore inimitabile, che è quello cannibalico del dominio (che consiste anche nell’esser dominati) rischia, come afferma una nota pubblicità, di non avere prezzo. Che lo si veda dal lato della domanda o da quello dell’offerta, è sempre l’ordine sociale che “va a puttane” nella doppia miseria, nella doppia perdita, in cui cliente e “ragazza” finiscono avvinghiati. Ed è sempre il corpo a trattenere il peso, la lesione, l’offesa di questa transustanziazione dell’astrazione del denaro nella pulsione viva della carne.  Nel corpo affonda l’orrore inconfessabile di una mercificazione che al corpo dovrebbe fermarsi, non per pietà, ma perché in esso è costretta a constatare quanto poco glorioso, quanto tristemente mortale, sia il desiderio che ammanta ogni merce e ogni corpo mercificato. Nel corpo della prostituta, ferita sempre aperta, si esibisce l’abiezione che il mondo dei soggetti trasformati in oggetti, e dei corpi ridotti a cose, deve ad ogni costo nascondere a se stesso: è il lato sacrificale del desiderio che l’estetica della merce respinge con un balzo all’indietro – nel perduto ordine della morale – perché tra le tante frasi che può pronunciare, e le fantasmagorie che può promettere, non c’è quella in cui rintocca il suono fatale di ogni caduta nella e della carne: hoc est corpus meum (o per quale motivo crede la credente Carfagna che Cristo si circondasse di pubblicani e di prostitute? come mai nei Vangeli  lo sguardo del perdono affranca le donne “che hanno molto amato” e colei che ha offerto spudoratamente se stessa viene innalzata sull’altare in un’analogia che non può sfuggire con chi tra breve offrirà il suo corpo “in sacrificio per noi”? Perché è probabilmente una prostituta quella a cui spetta il privilegio di riconoscere il Cristo risorto e di essere da lui chiamata per nome? Perché una prostituta - e non, ad esempio, un ministro – ci precede nel regno dei cieli?)

Questo invece non è il mio corpo, ma solo l’immagine in cui l’ho consapevolmente e scientemente alienato, un corpo visivo, costruito (e non di rado ricostruito) secondo i dettami di un’estetica spettacolare che è il punto medio di uno sguardo condiviso, in cui ciascuno vede (e desidera) solo quello che tutti gli altri vedono (e desiderano): questa immagine, separata da me e dal mio corpo vissuto, ma in cui la mia identità risorge e si rinnova, come in un avatar, è invece vendibile a piacere poiché il piacere a cui costantemente allude è in eccesso rispetto a ogni singolo godimento, lo esclude e lo rimette all’ordine del giorno di un desiderio senza fine. Riprodotto e mediatizzato su ogni supporto possibile, il corpo che si offre illimitatamente allo sguardo, si sottrae simultaneamente a ogni altro senso, icona che ammicca a tutti e a nessuno: sguardo che non eiacula, come quello della donna di strada, adescando (bella parola in cui si sente immediatamente la terribile debolezza dell’anima) con la promessa di un segreto, ma che, ripiegando su se stesso, sulla sua irrelata bellezza, seduce con una promessa completamente nuova, quella di un corpo finalmente risolto (e risorto) nella inaccessibile superficie di un’immagine. E’ una prostituzione cool, contemplativa, dove ogni eventuale passaggio all’atto ricade penosamente nella e sulla solitudine di chi lo compie. Universalmente disponibile non è più la carne – la volgarità del referente è respinta nel commercio della strada, tra i prolet orwelliani ancora convinti che per godere bisogna comprare e vendere qualcosa – ma la sua simulazione in una società dove la tonicità del desiderio e la mancanza di appagamento, la velocità e la virtualità di ogni relazione, insomma l’erosione di qualsivoglia valore d’uso, sono i motori di una specie di economia dell’immortalità. Guardare e non toccare, dunque: è la legge che regola la visione nei peep show. Tutto, d’altronde è sempre più da guardare, e sempre meno da toccare, anche nel mondo delle merci: un erotismo glamour avvolge ogni prodotto e lo fa volare alto nell’olimpo in cui i desideri lottano tra loro come divinità e possedere un auto o l’ultimo modello di un telefonino assicura un piacere uguale se non superiore a quello di (possedere) una donna. Soggetto e oggetto si scambiano di posto nell’ordine del desiderio, senza che nessuno trovi niente da eccepire a questo romanticismo che sessualizza la merce, nel mentre banalizza la sessualità. Perché scandalizzarsi se tra le adolescenti del mondo occidentale si diffonde una prostituzione occasionale che scambia prestazioni sessuali con oggetti di status, per lo più legati alla comunicazione, visto che, secondo molte pubblicità, l’ euforica onnipotenza di questi ultimi è infinitamente più desiderabile di un atto che ci mette tutt’al più alla stregua di uno yoghurt? No, il ministro Carfagna ha ragione: l’arcaica prostituzione che batte la strada pronta a concedere il segreto del proprio corpo al primo venuto – e in cambio di poche decine di euro – è “orribile”, tanto più nel paese in cui qualunque ragazzina può forgiarsi un corpo da velina e venderne il simulacro al migliore offerente. Come è bestiale il visibile, diceva Tertulliano, che senza posa si corrompe. Come è innocente il visivo.