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Un'immagine da "Le pulle"
Un'altra immagine dallo spettacolo
Un'altra immagine dallo spettacolo

Anno 2 Numero 06 Del 16 - 2 - 2009
Italiane
La famiglia č ancora il luogo della compromissione in “Le pulle” di Emma Dante

Mariateresa Surianello
 
Dopo la verticale allegorica disegnata con Cani di bancata per entrare nelle dinamiche della mafia e svelarne la sua dimensione melmosa, Emma Dante prova ora a infiltrarsi nel mondo della prostituzione, confezionando un altro tassello del suo teatro indagatore della nostra civiltà. L’argomento questa volta è complesso, tanto che potrebbe innescare una orizzontalità di reazioni a catena, finendo con l’investire tutte le sfere del sentire e del vivere umano. Ma con Le pulle l’autrice e regista palermitana ne delimita l’osservazione a una piccola comunità di travestiti che prende forma tra visioni oniriche e sketch da avanspettacolo. Un gioco per nulla velato di trasmigrazione del femminile nel maschile alla ricerca del sesso degli angeli, che mentre inneggia alla “minchia” sembra togliere ogni possibilità all’autodeterminazione, proprio negare la libertà di scegliere ciò che si vuole essere.

In scena in prima nazionale al Teatro Mercadante di Napoli, che lo ha prodotto con il Théâtre du Rond-Point di Parigi, questa “operetta amorale” – la definisce l’autrice – si apre sulla danza disarticolata di tre fate-marionette, che al suono di un carillon evocano - come fosse la profezia delle tre streghe nell’incipit di Macbeth – il vissuto di cinque loro simili. Così, in otto, tutte uguali, mentre il carillon si trasforma in un rumore sintetico (le musiche sono di Gianluca Porcu, alias Lu), avviano una danza frenetica e ripetitiva, fatta di gesti e movimenti quasi involontari, come indotti da una forza invisibile. Si riconosce in questi parossismi il linguaggio di Emma Dante che per Le pulle (puttane, in palermitano) è tornata in scena, per la prima volta da quando con mPalermu, all’inizio di questo decennio, l’aveva abbandonata per dedicarsi esclusivamente al lavoro di autrice-regista della Compagnia Sud Costa Occidentale. E per questo ritorno si è ritaglia il ruolo di Mab, la “levatrice delle fate”, quella che Shakespeare in Romeo e Giulietta fa descrivere da Mecurzio come colei che «se scopre una vergine giacere supina, la preme, e le insegna per la prima volta a portare e la fa donna di buon portamento». Citazione, ripresa da Dante nelle sue note di regia, che trasforma Mab in una istigatrice alla femminilità e insieme in una tenutaria di bordello, però in più lascia trasparire solo il dolore delle violenze subite, mettendo in dubbio la libertà di vivere la propria sessualità.

Per un’ora e quaranta minuti, come siparietti d’avanspettacolo, scendono e si alzano rosse quinte triangolari (le scene sono della stessa Dante e di Carmine Maringola), mostrando le tre fate (la danzante, la cantante e la parlante) che fanno da assistenti al corpo e all’anima di quattro travestiti e una trans, privi di qualsiasi erotismo e sensualità. A soli e duetti creano brevi momenti di comicità che non interrompono l’humus tristissimo composto da queste pulle e dalle loro storie, solo evocate per tutta la prima parte dello spettacolo. Specie nei momenti corali, in cui il lavoro d’insieme raggiunge livelli ritmici di grande impatto, tra stole di marabù, guêpière e falli di plastica, agitati tra le mani con compulsiva cupidigia. Fino ad assumere la forma di un lunghissimo e nauseante pasto, trangugiato senza appetito e rivomitato all’infinito. Riuscita è anche la scena del trucco costruita tutta sulla concitazione del gesto reiterato delle cinque pulle e tre fate, che si tormentano con continui colpetti il volto, tra rossetti, nuvole di cipria e spruzzate di profumo, sparso fino in platea.
Per tutta la prima parte, quasi un’ora dello spettacolo, che forse necessita di maggiore fluidità, Emma Dante procede attraverso territori onirici e stilizzati, assumendo ciascun elemento realistico come mezzo per la creazione di spirali parossistiche, fino a quando Moira con una parrucca bruna e vestito rosso fuoco non inizia a raccontare di sua madre che a dodici anni lo ha venduto a un uomo sul tavolo della cucina. Una tranche de vie che rinnova l’attacco alla famiglia, tema ritornante nella produzione dell’autrice palermitana, indagato in quanto luogo concluso in cui si generano i più profondi mali dell’individuo, in una società incapace di mitigarne il danno. Da qui lo spettacolo prende una forma più narrativa con Ata, la trans, che mostra la sua natura di donna, attraverso una doppia negazione donna-uomo e poi trans. Anche lei vittima della violenza del padre che avrebbe voluto un figlio maschio. Una necessità di raccontare accompagnata da un denudamento - via corsetti da cui trasbordano improbabili seni – del corpo che si mostra in tutta la sua mascolinità, portata all’eccesso dello scontro fisico violento.
E poi il sogno di Stellina, il suo bisogno di normalità che contagia tutte le altre, prima di spandersi in un matrimonio collettivo, negato e doloroso. La parola si trasforma in una danza di coppia il cui il partner di ciascuna è una bambola gonfiabile con tette e pene eretto, un se stesso e un altro diverso da sé, scambievolmente e contemporaneamente. Un’illusione sgonfiabile che la fata ballerina raccoglie all’indietro, scendendo a ponte dopo una capriola, e che poi trattiene in collo. Con otto marionette afflosciate e svolazzanti addosso, la fata inizia a girare, proprio come quelle ballerine che si alzano quando si solleva il coperchio di un carillon e se ne ode il suono.

A teatro: Napoli, Teatro Mercadante. Fino al 1 marzo.