Un ritratto di Marinetti eseguito da Prampolini
Un ritratto di Marinetti eseguito da Prampolini
La
La "Sintesi futurista della guerra"

Anno 2 Numero 07 Del 23 - 2 - 2009
Fiat ars, pereat mundus
Avanguardia, avanguardisti e trincee

Attilio Scarpellini
 
Per la gioia degli assessori e dei curatori, per rendere meno blanda la malinconia degli epigoni che hanno trasformato gli ultimi bagliori di un tragico crepuscolo in una innocua sagra di suoni e luci, riapriamo, con un gesto celebrativo, le pagine di un libretto che fu a suo tempo il giudizio di Dio delle avanguardie. Proprio alla fine del saggio di Walter Benjamin sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica si legge quanto segue: «Fiat ars- pereat mundus, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. E’ questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dei dell’olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come uno spettacolo estetico di primo ordine. Questo è il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte». E’ tra questi due estremi che si compie e si dissolve la parabola dell’avanguardia, nel senso che il suo compimento estetico, divenuto totale – prima nel macello della guerra ’14-’18, poi nell’assoluta desolazione umana della seconda che spingerà Adorno a proclamare l’impossibilità di una sopravvivenza dell’arte – non può che coincidere con la sua radicale negazione artistica. Il mondo e l’arte, contrariamente a quanto credeva Marinetti, la vita e l’arte, contrariamente a quanto credevano altri, non si sono fusi in una definitiva ricreazione (che avrebbe dato luogo a un mondo più artistico o a un’arte indistinguibile dalla potenza rivoluzionaria che si apprestava a sovvertire il mondo) ma sono periti insieme, avvinghiati, nello stesso movimento di decreazione. Persino uno dei testi più illuminanti degli ultimi cinquant’anni, La società dello spettacolo di Guy Debord, resta inchiodato all’idea hegeliano-avanguardista che l’inveramento dell’arte sia inseparabile dalla sua dissoluzione in nome e per conto del compimento delle sue esigenze di superamento del mondo: «L’arte nell’epoca della sua dissoluzione, in quanto movimento negativo che persegue l’oltrepassamento dell’arte in una società storica dove la storia non è ancora vissuta, è insieme un’arte di cambiamento e l’espressione pura del cambiamento impossibile. Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua vera realizzazione è al di là di se stessa. Questa arte è inevitabilmente d’avanguardia, e non è. La sua avanguardia è la sua sparizione». Fiat mundus – per rovesciare la formula di Benjamin – pereat ars: anche il situazionismo si porta appresso lo spettro di un compimento (e questa parola nel lessico del Novecento vuol dire invariabilmente: sparizione, negazione radicale) ancora da effettuare. L’arte e il mondo si scambiano di posto in una commedia dialettica che gira su se stessa come un palindromo: da qualunque parte la si guardi, produce il risultato della stessa negazione. Per cominciare qualcosa, bisogna farla finita con qualcuno. Imus in girum noctis et consumimur igni.  Nel frattempo, lo “spettacolo estetico di prim’ordine” di cui parlava Benjamin è da tempo già avvenuto - ma di esso non può esservi traccia in ogni memoria dell’avanguardia che si rispetti, identitaria (come quella che attualmente si addensa attorno al futurismo italiano) o progressiva che sia.

E’ la guerra, che uno scrittore come Ernest Junger accoglie in tutta la sua potenza travolgente e musicale in una delle sue opere autorali – Il tenente Sturm - a dettare le estetiche future e il futuro dell’estetica. E’ la guerra, e non l’arte, a diventare il soggetto di tutti i superamenti, a rivelare la parte maledetta di una modernità che di colpo depone i suoi ottimismi, i colori sgargianti della sua belle époque, i suoi ludi meccanici – e una tecnica benefica, prometeica – per sbattere in faccia a ciascuna delle sue vittime il lato oscuro del grandioso sacrificio di cui è chiamata a far parte: a società di massa, massacro di massa… L’inversione dell’accumulazione tecnica che Benjamin vede in azione nella prima guerra mondiale, sa di derisione rispetto alle visioni futuriste in cui ogni tecnologia assurge alla plasticità del mito (ma il mito, si sa…): la guerra imperialistica è una ribellione della tecnica che, invece che incanalare fiumi, «devia la fiumana umana nel letto delle trincee», invece che utilizzare gli aeroplani per spargere le sementi (o magari volantini dannunziani sulle terre irredente), «li usa per seminare bombe incendiarie sopra le città» e nell’uso bellico del gas trova «un mezzo per distruggere l’aura in modo nuovo». Aura per aura, quella della pittura futurista va in pezzi nella stessa palingenesi che il verbo del movimento, con una petulanza più che ideologica già pubblicitaria, non smette di evocare, immolata, e non solo umanamente, sull’altare della «guerra igiene del mondo». E se riappare oggi – intatta in una tela che lascia ammutoliti come Stati d’animo. Gli addii di Umberto Boccioni – non è per il vigore euforico che ci comunica la parola “futurismo”, quanto, ironia della sorte, per la nostalgia che proviamo davanti alla pittura.

L’arte è morta, sta sempre ancora morendo a forza di compiersi (Die Kunst ist tot, proclamavano i dadaisti berlinesi nel 1920 ma ancora negli anni 60 gli azionisti viennesi convocavano chissà come un simposio per accelerare la sua distruzione), la pittura, essendo fortunatamente già morta, si sporge dal suo al di là, e ci guarda, parla al nostro essere mortali. Colti in flagrante delitto di passatismo – anche le locomotive sono invecchiate - sentiamo che questo addio è stato dipinto un momento prima della catastrofe. Il suo treno era carico di uomini inconsapevoli come quello che Renato Serra, un contemporaneo di Boccioni non futurista raccontò in un’icastica visione del 1912 intitolata Partenza di soldati per la Libia: fermo, sbuffante sulla linea di partenza alla stazione di Cesena, salutato da una fiumana di interventisti pronta a tradursi, da lì a qualche anno, nella fiumana di cadaveri che la velocità della storia avrebbe incanalato “nel letto delle trincee”. Di quei soldati in partenza per la prima guerra coloniale italiana Serra intravedeva soltanto le nuche, uguali e piegate nell’obbedienza “macchinale” a un comando iscritto nell’aria del tempo, a un destino tornato a manifestarsi sub specie democratica, non più come evento eroico ma come sacrificio di massa.  Se ne andarono così, nuche tra le nuche, i Serra, i Boccioni, risucchiati dalla velocità di deviazione della tecnica in guerra e dell’arte in mondo, vittime della parallasse ideologica che va sotto il nome – non a caso di origini militari – di avanguardia…