Alessandro Baricco
Alessandro Baricco
Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Anno 2 Numero 08 Del 2 - 3 - 2009
La cultura di Stato e i partigiani dell’arte
Una risposta “dovuta” per fare chiarezza nella bagarre innescata dall’articolo di Baricco su Repubblica

Gian Maria Tosatti
 
Abbiamo osservato, letto, ascoltato tutto quello che è emerso nei giorni scorsi sul tema di una ipotetica riforma della cultura italiana proposta da Alessandro Baricco. Abbiamo letto il suo articolo e poi le risposte di Scalfari, Lucarelli, Cerami e di chiunque abbia preso in mano una penna per dire la sua. Abbiamo considerato che nessuna delle persone che sono salite su un pulpito per fare il loro discorso poteva considerarsi adeguato né attendibile. A partire da Baricco che di mestiere fa il romanziere (con risultati gratificanti principalmente dal punto di vista del mercato – forse è per quello che ne ha una così alta opinione) e non è abituato a dover dire per forza la verità o a fare ragionamenti documentati come sarebbe doveroso su un quotidiano (nel rispetto dei tanti giornalisti che su quello stesso giornale magari rischiano la vita proprio solo e soltanto per raccontare “tutta la verità”), tanto più che le sue storie sono spesso campate in aria non meno che il suo ragionamento sui finanziamenti pubblici. E poi ci sono gli altri nomi illustri, ognuno dei quali ha avuto qualche relazione pericolosa in merito alle “verità” di regime o di partito. E così tutti hanno parlato, ma nessuno ha detto niente.
Le stesse argomentazioni di Baricco, per altro, dimostrano di avere peso solo perché fanno bella mostra di sé su due paginone di Repubblica (con richiamo in prima), per il resto, infatti, sono inconsistenti perché strutturalmente errate o non documentate. L’unica cosa vera è una generalizzazione alla portata di tutti su cui anche i muri sarebbero d’accordo, ossia: il teatro è marcio perché i fondi pubblici sono male investiti. Verissimo, ma in ogni compartimento dello Stato i fondi pubblici sono mal gestiti, dalla sanità alle infrastrutture. Nessuno però per questo motivo avrebbe l’ardire di proporre la chiusura degli ospedali o dei cantieri.
Per quel che riguarda il tema della nuova alfabetizzazione, invece, c’è da rilevare l’inconsistenza del ragionamento. Esso, infatti, propone una logica d’intervento su strumenti generalisti, su strumenti che hanno a che fare col main-stream, mentre invece, il contemporaneo ci sta insegnando come le nuove generazioni abbiano del tutto disertato quei canali in favore di una parcellizzazione dell’informazione nella galassia della rete e, al limite, dei canali satellitari. Una galassia di piccoli spazi virtuali – a misura d’uomo – in cui oltre alle informazioni ci sia lo spazio del confronto, del dialogo, del commento. E’ questo che definisce la fortuna della blogsfera, di youTube o dei social-network, grandi reti costituite però di piccoli spazi quasi privati, che possono ospitare community di cento, duecento, mille persone che condividono le proprie idee, i propri punti di vista, i propri saperi. E bisogna proprio dirlo, tutto questo mondo presente è lontano anni luce dal maestro Alberto Manzi che Baricco propone di resuscitare su Mamma Rai. Però, per assurdo, è assai vicino alla realtà del teatro, una galassia di spazi – a misura d’uomo - che possono ospitare community di cento, duecento, mille persone che attraverso lo spettacolo e attraverso la costituzione di un’assemblea temporanea (che non si scioglie necessariamente con la calata del sipario), condivide le proprie idee, i propri punti di vista, i propri saperi. Eh sì, sotto questa prospettiva il teatro sembra molto più moderno della televisione. Ma siamo d’accordo che per chi voglia fare un discorso inutilmente incendiario (di carattere guasconamente futurista – ci mancava solo Baricco!) è assai più semplice descrivere il teatro come un gerontocomio in cui attori decrepiti recitano La locandiera facendo addormentare una platea di nonni un po’ rimbambiti. E rileviamo con onestà che questa prospettiva non è affatto fantasiosa, anzi, è una realtà diffusa, è una realtà che i governi italiani hanno fatto di tutto per tenere in piedi, evitando da sempre di regolamentare seriamente il settore dello spettacolo dal vivo al solo scopo di lasciarlo più facilmente permeabile ad ogni scorribanda di amanti da coccolare o trombati elettorali da sistemare in qualità di direttore artistico o consigliere d’amministrazione di questo o quel Teatro Stabile a risarcimento del proprio impegno “politico”.

E così dicendo abbiamo per lo meno aggiunto una verità al cumulo di castronerie lette nei giorni scorsi. In Italia, dunque, esistono due teatri. Il primo è fatto da artisti e da intelligenti operatori culturali, ha un pubblico giovane, e usa l’arte come un’affilata critica sociale – assai più libera ed onesta di quella che sarebbe possibile in televisione – e somiglia molto alla migliore generazione di internet (quella che pubblica sui blog le foto che sui giornali non escono, per intendersi). Il secondo è il frutto più immediato di un’Italia di vecchi, che tira a campà, che ripete sempre gli stessi vuoti slogan, mantiene da decenni le stesse amanti e che non vuole rinnovarsi perché non vuole togliersi di mezzo e lasciare spazio ai pensieri più nuovi. Questo secondo teatro assomiglia alla peggiore (ma anche l’unica attualmente) generazione della politica italiana (almeno quella della rappresentanza, mentre per fortuna esistono ancora i movimenti spontanei, che non a caso usano proprio la blogsfera e si ritrovano nei teatri).
E allora ecco che messo su questo piano il ragionamento comincia ad aggiustarsi, a diventare meno ozioso, meno pretestuoso. A questo punto il lettore che gridava vendetta contro la cultura dell’élite (che parola imbecille!) additata da Baricco, comincerà a fare la domanda più ovvia: «ma allora perché non spostiamo le risorse sul teatro buono e facciamo affondare quello cattivo, con buona pace di tutti?».
La risposta è semplice, perché questi due teatri non sono entità scisse, non sono fazioni in lotta, o meglio, se lo sono (e c’è da giurarci che lo siano) non possono essere letti in questo modo dalle istituzioni che devono sostenerli. Per lo Stato deve esistere un solo teatro ed esso dovrebbe rispondere a dei requisiti di eccellenza artistica e utilità sociale. Ma attualmente gli unici discrimini che determinano l’attribuzione di sovvenzioni hanno a che vedere con tutt’altri criteri. E non è difficile da credere in un paese dalla burocrazia perversa. Attualmente, infatti, tra le compagnie finanziate, riceve più soldi chi incassa di più. Ossia quei carrozzoni che vanno in giro per i paesi dell’Italia profonda portandosi in giro il faccione televisivo che recita un Amleto di terz’ordine permettendo alla moglie del macellaio di poter tirare fuori tre volte l’anno la sua pelliccia di visone. Fra le strutture invece, per quanto certi meccanismi siano simili, la situazione è ancora più incredibile. I Teatri Stabili, in quanto punti di riferimento territoriale per la produzione e la diffusione del teatro “d’arte”, ricevono la quota più alta del Fus. Da anni si spartiscono, in proporzioni costanti, la stessa percentuale di soldi pubblici, tagli o non tagli. E da anni i loro direttori e i loro consigli d’amministrazione di nomina squisitamente politica se ne infischiano dei propri doveri istituzionali che li obbligherebbero ad impegnare le proprie ricchezze nella crescita e nel sostegno di artisti presenti sul territorio e capaci di sviluppare con eccellenza i linguaggi del contemporaneo. E’ una cosa vera un po’ dappertutto, dal Teatro di Roma, in cui la nuova direttrice in due anni ha prodotto un coinvolgimento delle realtà artistiche di qualità del territorio inferiore a quello di un qualunque centro sociale di periferia, fino al Teatro Stabile del Veneto in cui il direttore ormai sembra essersi guadagnato una nomina a vita senza aver avuto mai il merito di produrre alcunché di notevole. Ma tutto questo non è né una novità, né frutto di qualche degenerazione decennale. Da tempo infatti, lo Stato, invece di pretendere migliori standard qualitativi dai suoi Teatri Stabili, ha preferito lasciare che questi rimanessero dei feudi politici e mettere il “teatro d’arte” nelle mani di altre strutture i Teatri Stabili d’Innovazione. A prescindere però dal nome promettente queste strutture hanno invece dimostrato già nelle premesse la loro inadeguatezza. Esse, infatti, si sono costituite progressivamente in base al buon lavoro dimostrato da questa o quella cooperativa che ha avuto ad un certo punto il riconoscimenti di TSd’I. Insomma se negli Stabili uno dei problemi era l’interregno perpetuo dei direttori artistici negli Stabili d’Innovazione era addirittura il teatro stesso ad identificarsi nella persona (o nel gruppo di persone) che lo aveva fondato. Pura follia burocratica. E per quanto l’attribuzione di un TSd’I potesse vagamente somigliare ad una medaglia conquistata sul campo è incontestabilmente vero che ogni soldato, ogni eroe, ad un certo punto invecchia, perde di motivazione e dev’essere sostituito. Ma l’ordinamento (anzi il non-ordinamento) attuale tecnicamente non lo rende possibile se non per abdicazione del soldato stesso. Ed è dunque facile immaginare quali oscenità e turpitudini siano nate dalla stanchezza senile di certi guerrieri.
Ma fin qui si è intenzionalmente voluto omettere che in realtà lo Stato, anche senza munirsi di una legislazione in materia che risolverebbe il problema dalle sue cause, avrebbe uno strumento per poter aggiustare alcune di queste  storture almeno nella dimensione degli effetti. Tale strumento è costituito dalle commissioni ministeriali che si occupano dei diversi ambiti dello spettacolo (prosa, danza, ecc…), ossia da un gruppo di “esperti” che ha il compito di monitorare capillarmente le attività delle diverse realtà sovvenzionate al fine di poter l’anno successivo presentare una relazione al ministro su quali realtà siano meritevoli di un incremento di fondi e quali invece dovrebbero essere penalizzate. Ma in tutti questi anni le commissioni, specialmente quella per la prosa, sono state costituite da personaggi per lo più ignoti. La più celebre dei commissari per la prosa dell’ultimo decennio rimarrà Sabina Negri, moglie del ministro leghista Calderoli, nota per essere stata l’opinionista svampita del programma Markette (con la “k” mi raccomando). Le altre (come del resto la Negri, che al suo attivo aveva una manciata di drammoletti scritti) sono state figure comunque con un legame troppo esile con il teatro per potersi pronunciare seriamente su questo o quel cartellone, personaggi che non hanno mai girato l’Italia trecentosessantacinque giorni l’anno passando dai grandi teatri delle metropoli alle piccole sale di provincia dove un giovane direttore artistico sta facendo un ottimo lavoro. Insomma nessuno di loro fa quello che un normale critico di teatro fa quotidianamente. Certo, anche i critici sono una razzaccia, dispotici, faziosi, capofila di conventicole di ogni genere e valore. Tuttavia a differenza degli “oscuri” commissari essi vantano una importante differenza, sono sempre visibili, sono esposti al giudizio. La loro firma e la loro faccia si incontra tutti i giorni sul giornale o nelle sale dei teatri, quando fanno una cazzata è sotto gli occhi di tutti, quando li si incontra gli si può anche sputare contro. Insomma, nella condizione del critico c’è per lo meno quella trasparenza che può renderli comunque bersagli a loro volta di critiche. E forse sono loro quei tecnici che naturalmente dovrebbero sedere in commissione, scannandosi reciprocamente perché si odiano, e alla fine, nel compromesso tirando fuori delle soluzioni che gli altri commissari non potrebbero mai neanche proporre perché non sono mai stati a Dro, o a Castiglioncello, in paesi e festival che con due lire fanno molto di più di quanto non facciano i succitati Teatri Stabili o Stabili d’Innovazione e che se fossero “potenziati” economicamente, forse potrebbero veramente dare una spinta a questo paese. Vorrei ricordare, a tal proposito, che l’intera scena contemporanea romana (ossia della capitale d’Italia), un movimento di artisti eccellenti che attualmente ha una potenza di fuoco di tutto rispetto, raggiungendo un altissimo numero di spettatori, è stata letteralmente presa “a balia” per anni da Armunia di Castiglioncello (un paesello che non fa neanche provincia) che li ha cresciuti e svezzati nella totale indifferenza dei teatri romani pubblici e privati – anche di quelli che oggi vorrebbero autonominarsi benefattori. Quello della piccola realtà toscana è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare, di luoghi che hanno deciso di fare un investimento in cultura, di non portare a casa lo stipendio programmando Paolo Calissano nella parte di Otello ma di far crescere artisti che oggi rappresentano l’esempio migliore della creatività italiana, armi acuminate in mano all’opinione pubblica, da Pippo Delbono alla Societas Raffaello Sanzio, da Ascanio Celestini a Danio Manfredini, gente su cui all’inizio, per investirci, ci voleva molto coraggio e che oggi non manda le sale deserte come dice Baricco, anzi, lascia code di spettatori fuori dai teatri italiani e internazionali. E poi ci sono tutti gli artisti geniali che animano la scena indipendente, un mondo che, con tutta evidenza, Baricco dimostra di non conoscere se non sa difenderli mentre lancia affondi contro i suoi avversari, perché per sferrare un attacco si può anche sparare nel mucchio, ma per costruire una difesa bisogna sapere bene di cosa si sta parlando. Ed essi forse hanno poco a che fare con concetti vuoti come i “grandi numeri” o “l’impatto di massa”, ma sanno svolgere attualmente il ruolo che era dei giullari nel medioevo, facendo divertire (non solo facendo ridere) e informando, perché un artista è prima di tutto un intellettuale, un intellettuale che si cala in un’assemblea e ci si confronta a viso aperto, a viva voce, non protetto da uno schermo televisivo. Anche loro, non mandano le sale deserte, anche loro hanno community di cento, duecento, mille persone che ogni sera si riuniscono per ascoltare cos’hanno da raccontare. Proprio come fanno i ragazzi di questa generazione quando vanno su internet per scegliersi l’informazione che vogliono perché non gli piace stare passivi ad ascoltare la voce del padrone di turno che parla attraverso il megafono delle televisioni.

Mi dispiace dirlo con tanta secchezza, ma il main-stream, è superato perché anni di storia dell’editoria hanno dimostrato che esso non è sinonimo di libertà. Al contrario oggi l’arte deve continuare ad essere libera più di tutto. E ciò può essere garantito solo dallo Stato come espressione più alta della democrazia e dell’interesse collettivo. Se tuttavia lo Stato italiano non sembrasse degno di tale definizione, se lo Stato italiano ci sembrasse incapace di difendersi da sé stesso e dai suoi apparati deviati, allora forse dovremmo temere più di tutto il suo main-stream la sua “scolarizzazione”, la sua “normalizzazione” come avrebbe detto Pasolini, e ritrovarci ancora in quei teatri che ci permettono di scegliere da che parte stare.