Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 2 Numero 10 Del 16 - 3 - 2009 |
Parlare ai lupi e agli uccelli |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
«Wozu Dichter in dürftiger Zeit – a che servono i poeti in tempi di povertà?»
Hölderlin Era il 1962. La Polonia era schiacciata dal controllo sovietico. Le sue piccole città giravano come orologi, come ingranaggi della grande macchina socialista. In una di queste province, a Opole per la precisione, c’era un teatro di 80 metri quadrati. Una sala con tredici file di panche. Su di esse sedevano diverse tipologie di spettatori. Operai per la maggior parte. Qualche intellettuale, alcuni di quelli che qualche anno dopo si sarebbero impegnati perché quello spazio non venisse chiuso. Erano tempi in cui la parola “libertà” era stretta in un recinto di regole da non infrangere. In quel momento, Jerzy Grotowski, un giovane regista, sviluppava il suo concetto di Teatro Povero e gli dava forma col suo spettacolo più importante, Akropolis di Wyspianski. Diciassette anni dopo l’apocalisse, sulla stessa terra bruciata dai forni, si realizzava la più precisa versione che si sia mai data della fenomenologia dell’Olocausto. In una stanza piena di rottami un gruppo di figure alienate si confrontava con i riferimenti della sua cultura occidentale, recitando brandelli di aneddoti biblici, monconi di storie ormai consunte, buone solo per un’ironia macabra, una ironia da operai o da lavoratori forzati che lentamente trasformavano quel mucchio di rottami in una grande macchina, in un forno per la precisione, dentro cui tutti, alla fine, sparivano, portandosi dietro carne e anima, un Cristo di stracci e un mucchio di scarpe infangate. Tutti loro avevano ripetuto per l’ultima volta la vecchia filastrocca di un’era consumata, sepolta in quel campo di Auschwitz che per tutto lo spettacolo era stato chiamato «cimitero delle tribù», la necropoli dell’era moderna sopra la quale, come nelle civiltà antiche, veniva fondata una nuova Acropoli, quella della civiltà contemporanea, le cui radici affondano nella cenere. Da allora e prima di allora nessun sopravvissuto, nessun libro, nessun film, nessuna immagine ha raggiunto la profondità con cui quel breve spettacolo descriveva il senso di un evento che aveva del tutto trasceso la sua portata storica ed era diventato archetipo fondante del presente. Ecco, quello che accadde al Teatro delle Tredici File di Opole nel 1962 sotto la guida di Jerzy Grotowski fu la fondazione del Teatro Povero, una delle più profonde rivoluzioni artistiche della Storia. Era il 1959 quando in quella sala di 80 metri quadrati Jerzy Grotowski entrò per la prima volta come giovane direttore. Sono passati cinquant’anni e dieci ne sono passati dalla sua morte. Tuttavia è ancora difficile ricostruire il quadro di questa esperienza nella sua complessità, anche volendosi fermare al solo decennio in cui il regista e teorico si occupò di teatro tout court. Da Orfeo (1959) Ad Apocalypsis cum figuris (1969). Ciò che Grotowski poteva dire allora era estremamente limitato dalla impossibilità a dichiarare la profonda vocazione politica di quella ricerca. Venne allora cercata, assieme a Ludwik Flaszen, geniale consigliere letterario del regista, una formula che potesse “passare la censura” e si puntò sul concetto di “rituale teatrale”. E da lì, quello che servì per ingannare la censura funzionò talmente bene che riuscì ad ingannare tutti (o quasi). Dai detrattori che in questi cinquant’anni hanno attaccato Grotowski senza averci mai capito niente, ai seguaci, tutti, nessuno escluso, che non ci hanno mai capito di più e che dunque, passo dopo passo lo hanno tradito, svilito, ridotto la sua lezione ad una logora estetica. Al Teatro Povero toccò dunque la sorte di una rivoluzione senza popolo, una rivoluzione che sfiorò molti, ma che nessuno fu in grado di abbracciare. Oggi, essa è consegnata alla Storia con tutta la sua energia incendiaria, come una sorta di miracolo dormiente, come l’ampolla col sangue di San Gennaro. Chi la osserva si inebria del brivido misterico e dimentica di cogliere il messaggio vero che quel miracolo contiene. Chi insegna e chi apprende, nelle università o nei teatri, la storia del teatro di Grotowski non manca mai d’impantanarsi nelle storielle sulla sequenza della morte di Ryszard Cieslak nel Principe Costante (1965), sulla sua ispirazione e sul percorso che lo condussero a raggiungerla. E resta lì, abbacinato da questo miracolo di tecnica ed intuizione facendoselo bastare. E’ un modo di trattare Grotowski che equivale a leggere la Divina Commedia limitandosi ad apprezzare la struttura sintattica e l’armonia delle rime. Nel Principe Costante Cieslak assieme ai suoi compagni dava vita ad una detonazione politica annichilente. Sul tavolo delle torture c’era l’intera anima polacca, esposta alla delegittimazione della propria sovranità dall’occupante sovietico alle cui spalle sfilava la processione della Storia e dei suoi oppressori. Nella levità del delirio di Cieslak c’era il sehnsucht di Conrad (Dzyady di A. Mickiewicz – il Dante polacco), c’era la fede tremula del Cristo crocifisso, c’era la cenere di un genocidio che si poteva ancora toccare, c’era il popolo polacco e la nobiltà del suo modo di rispondere, spogliato ancora una volta della sua identità in quel 1965 il cui cielo era coperto dall’ombra lunga della Rivoluzione Ungherese. Tutto questo c’era ed era gridato in faccia al popolo polacco senza mediazioni in un corpo a corpo che si svolgeva proprio nel freddo di una sala riscaldata dal fiato dei sovietici sul collo. Basta leggere i testi degli spettacoli che Grotowski realizzò dal 1959 al 1969. Da quelli celebrati, come Akropolis, a quelli abortiti come Studio su Amleto (uno dei più illuminanti passaggi del percorso). La storia del Teatro Povero è lontana anni luce da quel ritratto fricchettone di sciamani cialtroni che molti esegeti e seguaci ci hanno consegnato. Il Teatro delle Tredici File e in seguito il Teatr Laboratorium erano avamposti di un radicale teatro politico, di un teatro capace di ispirare. Era questa la necessità che, nel tempo, aveva preteso che il Teatro Povero sviluppasse una tecnica tanto acuminata, capace di passare come una lama attraverso le divise (mentali) degli operai, degli studenti, di tutti. Era questa la necessità che aveva portato alla stessa fondazione del concetto di Teatro Povero. Esso, infatti, assunse tale nome non per la disadorna veste scenografica o per gli striminziti abiti di scena. La povertà di Grotowski corrispondeva ad una spogliazione francescana del teatro fino alla sua essenza, fino alla cancellazione di ogni orpello, di ogni limite linguistico, del concetto stesso di personaggio, di storia, di carattere, fino a far dello spettacolo una danza di archetipi nudi, la restituzione della realtà attraverso la sua rappresentazione più profonda, un metalinguaggio che confonde la demarcazione tra soggetto e oggetto, fra il sé che guarda e quello che è guardato. E’ impossibile dire quanto l’indirizzo di questa ricerca fosse determinato dalla rigidità di una censura politica da attraversare e forse non è neppure importante se osservato con gli occhi di un presente odierno in cui, anche senza censure di regime, è quasi impossibile far arrivare al pubblico un messaggio radicalmente umano. Il Teatro Povero di Jerzy Grotowski, talmente povero da essersi spogliato di tutto, da aver eliminato addirittura il teatro, lo spazio della rappresentazione, finendo per giocare la sua partita direttamente dentro l’individuo, sullo scacchiere degli archetipi su cui si fonda la coscienza, non produceva un evento da contemplare e su cui riflettere, ma dava vita ad un dialogo profondo e diretto fra realtà e pubblico attraverso l’uso della scena come spazio in cui i due piani potessero coincidere e suggestionarsi reciprocamente per “induzione”. Ecco a cosa servono i poeti in tempi di povertà, a creare un Teatro Povero, in cui gli individui messi ai margini dai grandi movimenti della Storia, possano ancora affacciarsi per vedere l’origine della spirale e decidere se afferrarla. In teatro: Nell’aula magna dell’università La Sapienza di Roma, si svolgerà lunedì 16 marzo una serata dedicata al Principe Costante di Grotowski. Alle ore 20,45 sarà proiettato il video dello spettacolo seguito dalle riflessioni di Ludwik Flaszen e di Maya Komorowska. |