Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 2 Numero 10 Del 16 - 3 - 2009 |
I poeti e i realisti |
Tentativi per mantenere almeno l’umanità mentre si perde tutto il resto |
Attilio Scarpellini |
«La generosità è una virtù dei poveri» Albert Camus Ora che la crisi economica è entrata nella sua fase selettiva, il mainstream della cultura suona il de profundis dello spettacolo dal vivo, indicando in esso una metastasi dello spreco e, soprattutto, denunciando la sua residualità, il suo snobismo, la sua arretratezza umanistica, in una parola la sua inefficacia come strumento di comunicazione di massa. Chiamato a confrontarsi con il business, e proprio nel momento in cui quest’ultimo tocca tutta l’insignificanza del suo valore, della sua capacità creativa e coesiva, del primato politico che per decenni gli è stato attribuito, il teatro appare immediatamente colpevole per l’eccesso estetico della sua povertà: continuare a lavorare nel campo dell’illusione, mentre tutto attorno ferve il lavorio di simulazione di una nuova realtà – e della società che le corrisponde – ostinarsi ad essere espressivi dove tutto è operazionale, carnali dove tutto è virtuale, focalizzare uno sguardo, un corpo, un mondo, quando in un solo totale se ne potrebbero imprigionare mille, e in più essere servi (come accade nel teatro pubblico) senza servire a nulla, questa è pura dépense (spesa improduttiva nell’accezione di Bataille, ma anche in quella di Tremonti e di tutte le economie politiche che si rispettino), refrattaria, per così dire, ad ogni correzione riformistica. Si è visto di recente, ed è strano che sia sfuggito al fervido dibattito sulle sorti della cultura italiana, questo scandalo di lusso e insieme di mendicità entrare direttamente, vistosamente in azione: sulla scena del gruppo inglese Propeller, che aveva trasferito il suo A midsummer night’s dream sul palco del Valle, il duca Teseo, con un gesto per niente furtivo, allungava una borsa piena di soldi al povero Bottom, tessitore e primo attore di una sgangherata compagnia di artigiani. Eppure, la rappresentazione di Piramo e Tisbe a cui danno vita gli artigiani del Sogno è, in quanto tragedia, un vero disastro: si ha davvero l’impressione che, come spesso ripete Claudio Morganti, gli attori non sappiano fare nulla. Ma siamo nel campo della pura eccedenza – e per quanto concerne il gesto del Duca, della pura sovranità – che in qualche modo contamina l’intera vicenda. Bottom è un operaio (non ancora un operaio della manifattura industriale), povero, credulo e smargiasso (Bob Barrett sulla scena di Edward Hall ne da’ un’interpretazione tenorile, umanissima) che, proprio in virtù di questa sua condizione, vede le fate a cui il signore di Atene, nel suo illuminismo cortigiano, ostenta di non credere. In questa economia, l’illusione, che nella notte arretra e fa arretrare la civiltà dietro il confine ctonio della magia – dove Titania e Oberon, come Eumenidi eschilee, reggono ancora l’equilibrio della città – ha la sua parte e la sua mercede. La sua povertà di artificio è l’essenza della sua capacità di trasformazione nell’evento teatrale. Di questa soglia – tra la natura e la sua trasformazione, tra la povertà più assoluta degli strumenti e il lusso più sfrenato dell’immaginazione – ha dato una bellissima descrizione Jean Baudrillard in uno dei suoi scritti dedicati all’arte: «Basta pensare all’Opera di Pechino, a come, con il semplice movimento di due corpi duellanti su una barca, si poteva mimare e rendere viva tutta l’estensione del fiume, a come due corpi che si sfiorano, si evitano, si muovono avvicinandosi sempre di più senza toccarsi, in una copula invisibile, potevano mimare la presenza fisica sulla scena dell’oscurità in cui si svolgeva quella tenzone. Là, l’illusione era totale e intensa, più che estetica era un’estasi fisica, proprio perché si era evitata ogni presenza realistica della notte e del fiume… Oggi si farebbero venire in scena tonnellate di acqua, si girerebbe il duello all’infrarosso, e cose del genere». E allora, di nuovo: Wozu Dichter in dürftiger Zeit? come si chiedeva Hölderlin in Pane e Vino. E cioè, alla lettera, “perché”, ma in realtà: “a che servono” i poeti in tempi di povertà? La prima, più immediata risposta, dettata da un’attualità che per il momento sembra intenzionata a sussistere nella crisi, eludendo anzitutto ogni suo possibile impatto spirituale, è: a niente. I poeti (e la loro poiesis), gli artisti (e le loro ingenue technai) non servono a niente. O meglio: servono a tutelare l’idea che ci sia ancora qualcosa che non serve a niente, l’eccedenza e l’eccesso di una gratuità insensata che, nella controluce di un mondo dove tutto ha un prezzo e un’utilità, può ancora far brillare la sua insignificanza come una mina… Sul terreno di una povertà che non ha nulla di estremo – «la crisi non è tragica» come proclama il Duca d’Italia che al pari di quello di Atene non crede né alle fate né agli spettri – e di un’economia che si getta alle spalle il suo crollo, cercando di negare che esso sia comunque avvenuto, l’arte continua a funzionare come un anacronismo: arriva troppo presto o troppo tardi, senza riuscire a dar ragione della sua necessità (le priorità sono altre) di ricadere finalmente sulla terra, né del suo impulso (non è più tempo di capricci) a volatilizzarsi nell’Olimpo dei desideri condivisi, con sempre più affanno, da una società liquida. Debolmente profetica, posta davanti a uno sguardo che ne intende la debolezza ma non la profezia, può solo apparire come il riflesso stanco di una società che si appresta stancamente a portare a termine la sua ultima impresa: sopravvivere a se stessa e alla transvalutazione che la lavora dall’interno. Sospesa tra due fantasmi, quello dello stato e quello del mercato, le si chiede tutt’al più di iscriversi nell’ordine del giorno riformistico che completando il processo di “alfabetizzazione al moderno” spera di poter riportare la crisi nel lato buono del valore, cioè nel lato illuministico del business - dopo che la sua parte oscura è esplosa. Ai margini dei sistemi culturali che si restringono entro un’economia che non tollera più la spesa improduttiva, e si dichiara definitivamente incapace di praticare l’irrazionalità del dono, si troverà sempre una mano disposta ad allungare furtivamente una borsa agli artigiani dell’illusione. L’unico dato irriducibile, perturbante, resta l’identità del mendicante e del suo mendicio, l’insistere di un’illusione senza potere, ma ancora dotata di un corpo (l’artista, diceva Valéry, porta anzitutto il proprio corpo), nella potenza di una simulazione che, come gli dei o gli angeli, dispone di tutto, ma non di un corpo. |