Anno 2 Numero 11 Del 23 - 3 - 2009
Riprendere Berlino
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
La mattina del 13 agosto 1961 i berlinesi si trovarono di fronte ad un muro. La sera prima non c’era. E la mattina eccolo là. A dire la verità quel giorno era soltanto una barriera di filo spinato (i mattoni furono messi due notti dopo), ma quel che bisognava marcare era evidente, un confine all’interno di una città. Il muro di Berlino non divideva, infatti, cinesi da mongoli, sammarinesi da riminesi, cittadini del Vaticano da romani. Il muro di Berlino divideva berlinesi da berlinesi e spesso divise i padri dai figli, le nonne dai nipoti e via dicendo. E’ per questo che divenne il simbolo più odioso della guerra fredda, perché costituiva un confine calato nella vita delle persone. Quel muro stette su 28 anni avendo tutto il tempo di dimostrare la sua antropologica insensatezza. A prescindere dalla folta letteratura sulla fuga, i berlinesi non smisero per un solo momento di volare più in alto di quegli odiosi tre metri e mezzo di cemento, di costruire ponti per attraversare quel confine che si dava materiale per volersi ideologico. Dopo tanti anni i muri vanno ancora di moda e si ergono a testimonianza dei fallimenti della politica. Laddove i governi mancano di fare il proprio dovere allora si alza un muro. Israele e l’Autorità Palestinese, assieme ai mediatori internazionali non sono stati in grado in questi anni di costruire un progetto di convivenza reale fra due popoli che avrebbero molte possibili strade per il dialogo e allora alzano un muro. E’ una costruzione ancora più imponente di quella tedesca. Alta quasi il doppio. E che ha il solo scopo di servire da cassa di risonanza per i sogni di popoli che invece di collaborare (in base ad accordi bilaterali che mettano fine alle reciproche ostilità) vengono brutalmente segregati al di qua o al di là (si veda come il tema è stato trattato con ironia dal video di Rona Yefman alla Galleria Stefania Miscetti di Roma).

E poi ci sono molti altri muri costruiti con materiali più attuali del cemento armato (ma non per questo meno “armati”), ossia con le leggi o i condizionamenti culturali. E’ il caso quest’ultimo del muro che divide italiani e romeni, una frontiera che non sta fra due Stati, ma che si è alzata in mezzo alle nostre città. E’ un muro che nella retorica divide due popoli, ma che nei fatti divide il mio commercialista dal mio idraulico e, quel che è peggio, divide, nelle classi scolastiche, il figlio della fruttivendola dal figlio della badante. E per quanto oggi un cittadino europeo proveniente dalla Romania provi una rocambolesca fuga come quelle dei film sulla Berlino degli anni ’60, non riuscirà mai a scavalcare quel muro o a passare per il Checkpoint Charlie. Anche qui, un confine si alza dove la politica ha dimostrato la propria incapacità a garantire un piano d’integrazione reale per una società divenuta multietnica e al contempo un sistema giudiziario che possa fungere da deterrente per i criminali provenienti da altri paesi come per quelli nati e cresciuti in Italia (dove la mafia corrisponde ancora alla principale realtà imprenditoriale nazionale).

Un muro contiguo a questo è quello che poi, ultimamente, si è alzato fra il giorno e la notte, un muro metafisico che sembra appartenere alla mitologia greca, alle leggende in stile Piramo e Tisbe, ma che in realtà è qualcosa di assai meno romantico. Un tempo si sarebbe chiamato coprifuoco, e in una comunicazione politica che ha fatto dell’allarmismo uno strumento di consenso è possibile che ricominci ad essere chiamato in questo modo l’insieme di ordinanze restrittive che il sindaco di Roma, principe tra altri sindaci cosiddetti legalitari, sta facendo piovere sulla capitale. Dopo i divieti che hanno coinvolto il settore dei venditori e consumatori di alcolici in stile Chicago anni ’30 si è passati a misure ancor più drastiche per i forni, i gelatai e i cosiddetti “kebabari”. E se è già difficile sostenere che per prevenire i problemi di ordine pubblico causati dall’ubriachezza la soluzione è impedire la vendita degli alcolici (sarebbe come dire che per ridurre la percentuale di omicidi dovremmo mettere sulle tavole degli italiani cucchiai al posto di coltelli), non è stato ancora trovato qualcuno in grado di determinare quali problemi di ordine pubblico potrebbe causare un consumatore di cornetti caldi o di gelati. A raccontarla così questa sembra una problematica sciatta, e magari indegna di una rivista di cultura, però a ben vedere a forza di svuotare la notte dai potenziali pericoli si finisce per svuotarla del tutto, renderla una no-man’s land in cui nessuno ha interesse ad avventurarsi. La notte vuota di cittadini che non hanno nulla da guadagnare (in soldi o in esperienze) diventa abitata soltanto da ombre che non hanno nulla da perdere. Il buio quando è pieno di luci fa certamente meno paura. Ma una politica “oscurantista”, quando non è in grado di risolvere dalle cause le emergenze che rendono una società insicura, spegne tutto e cerca di nascondere i cittadini dietro i muri dei loro appartamenti, muri che sono ovunque, confini tra noi e l’altro disseminati nelle nostre città.

E poi c’è un ultimo confine che si erge su una delle più conclamate debacle politiche internazionali ed italiane nella fattispecie. Quella che riguarda il rapporto fra crisi e futuro. Su questo tema il governo italiano, non differentemente dalle altre forze politiche che completano l’arco costituzionale, non è stato in grado di dare una risposta convincente. A farglielo notare è stata la generazione su cui le inadeguatezze dimostrate peseranno di più, ossia la galassia degli studenti. Hanno manifestato, hanno argomentato, hanno lottato. I politici hanno sentito il chiasso, ma non hanno ascoltato. Hanno tirato dritto per la propria strada segnando una cesura, un confine appunto, a difesa del quale hanno messo un muro di polizia pronto ad alzarsi non appena se ne presenti l’occasione. E’ andata così anche mercoledì scorso quando gli studenti della Sapienza hanno deciso di manifestare pubblicamente il proprio dissenso. Una muraglia di poliziotti li ha ributtati dentro le mura del “ghetto” universitario senza concedergli la libertà costituzionale di manifestare. Uno scenario da anni ’10 del Novecento, ossia esattamente un secolo fa. La motivazione addotta è che il nuovo protocollo firmato dalla giunta Alemanno prevede sei percorsi prefissati per i cortei nella capitale ai quali si può accedere previa autorizzazione del prefetto. Al di fuori di queste possibilità nessun corteo può essere tollerato. Ma l’Onda, che esprime la sua preoccupazione e la sua democratica opposizione verso il governo (e per estensione l’intera classe politica) responsabile dell’evidente declino di questo paese non può essere paragonata ai carri allegorici del Carnevale di Merano e fatta sfilare da Piazza della Repubblica a Porta San Giovanni. L’Onda somiglia di più al popolo che scende in strada quando è affamato e strozzato, quando non c’è pane né per il corpo né per la mente e soprattutto quando non ci sono investimenti perché si costruiscano forni. Fare finta di niente, chiudere questo dissenso dietro un muro di polizia equivale a ripetere l’infelice espressione che costò la testa alla regina Maria Antonietta e al suo consorte. Anche allora si costruirono muri, si chiamavano “barricate”, speriamo di non doverci tornare per forza.