Un'immagine dallo spettacolo
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Un'altra immagine da "Foto di gruppo in un interno"

Anno 2 Numero 11 Del 23 - 3 - 2009
Le vent nous portera
La lenta costruzione di un muro nella borghesia italiana all’epoca del fascismo nella “Foto di gruppo in un interno”

Mariateresa Surianello
 
Un’altra giornata da segnare sul calendario del teatro romano, di quel teatro che miracolosamente sopravvive vagabondando di spazio in spazio e con economie ben al di sotto della soglia di povertà. Al suonar della mezzanotte la giornata di sabato 21 marzo 2009 si apre con l’intervento della polizia al Rialto, uno dei luoghi più aperti alla creazione artistica non solo romana, che si è visto di nuovo apporre i sigilli ad alcune sale importanti per le attività performative ed espositive. Un evento inquietante per la presenza massiccia delle forze dell’ordine, che hanno addirittura circondato l’isolato, e paradossale a poche ore dall’assemblea al Cinema Farnese, che al cadere dell’equinozio di primavera – come un rito propiziatorio ripetuto ogni anno - avrebbe avuto protagonista, accanto agli assessori alla cultura del Comune e della Provincia di Roma e della Regione Lazio, proprio il teatro indipendente romano, che quelle sale del Rialto deve utilizzare per garantirsi un’esistenza. Ciò significa trovare uno spazio scenico per mostrare il lavoro, ma ancora prima disporre di una casa che accolga l’intero processo produttivo.

Questo vale anche per ZTL_pro, le produzioni sostenute dalla Provincia di Roma nel progetto “Scenari Indipendenti”, tra le quali rientra Foto di gruppo in un interno, il nuovo spettacolo di Lisa Ferlazzo Natoli, presentato come “prima variazione”, il 21 e il 22 marzo al Palladium. Per questo con microfono alla mano, l’attrice e regista sottolinea la gravità del fatto accaduto al Rialto, lasciando per qualche minuto ancora i suoi attori immobili sul palcoscenico. Poi lo spettacolo inizia con camminate frenetiche dei dieci attori in tutte le direzioni, come voler liberare i propri corpi da quello spazio limitato, chiuso da quell’alto muro di mattoni che incombe dal fondo della scena. Un’attrice scivola attraverso una mobile porta e si stende sul proscenio iniziando a scrivere una lettera che dà la collocazione storica alla vicenda, 23 ottobre 1933. Siamo nel giardino dei Benedetti-Klemen, ricca famiglia di industriali ebrei, in una Trieste libera da pregiudizi verso la comunità giudaica, già a partire dal 1771 con la Patente di Tolleranza, emanata da Maria Teresa d’Austria, e poi con l’abolizione del ghetto nel decennio successivo. Alla lettera di Ada Benedetti-Klemen – forse un brano di un suo romanzo epistolare, visto che si dichiara essere una scrittrice – è demandata la paura del presente, la sua voglia di partire e la percezione che «tutto si sta dissolvendo», come fosse la Micol nel Giardino dei Finzi Contini. Ma più che al romanzo di Giorgio Bassani, trasposto per il cinema da Vittorio De Sica, dove esclusione, deportazione nazi-fascista e sterminio degli ebrei sono il nocciolo della storia, lo spettacolo di Lisa Ferlazzo Natoli sembra seguire le linee dell’indagine antropologica e sociale del Luchino Visconti di Gruppo di famiglia in un interno, non solo per la similarità del titolo e al di là della trama. La vicinanza è nella volontà della regista di compiere una critica politica verso la classe borghese, chiusa dentro privilegi che le oscurano la visione della realtà.

Riunita per dividersi l’eredità del padre, la famiglia, che appunto è la nuova generazione dei Benedetti-Klemen – aspetto non proprio secondario per dimostrare l’immutata assenza di consapevolezza - inizia a mostrarsi nelle sue stranezze e storture borghesi, incapace di comprendere gli accadimenti della storia e le trasformazioni della società fascistizzata. Anzi, dai veloci dialoghi, che dal realismo sconfinano spesso in battute grottesche, si capisce la continua connivenza col regime, dettata da una morale completamente distorta dal profitto e dalla conservazione dello status quo. E comunque dimentica di ogni segno di appartenenza diverso da quello impresso dal denaro. A cominciare da Agostino, il fratello maggiore, la cui moglie resta sempre in disparte - diversa anche nell’abito bianco – a guardare dall’esterno questo compatto gruppo di nero vestito. Accuditi dalla servitù, distrattamente si parlano Agostino, le tre sorelle (con Nora che fa proprio la nuova donna fascista), un cugino e un fratellastro, ai quali si aggiunge un ambiguo straniero, ex jugoslavo in una Trieste che è stata terra di confine, contesa col sangue ben oltre la fine della guerra. E quella cameriera Ester che con il maggiordomo Olmo, in uno slittamento temporale in avanti, smettono di spazzolare e lucidare e si trasformano in aguzzini, insieme allo straniero.

In questa prima variazione di Foto di gruppo in un interno, le scene parlate si alternano a quelle di puro movimento, funzionali in questa fase del lavoro a completare i vuoti lasciati dalla scrittura del testo. Sulle note di trascinanti ballate yiddish, la danza con le porte, mobilissimi elementi scenografici che gli attori spostano velocemente aprendole e attraversandole, riesce a descrivere più delle parole alcuni momenti della tragedia seguita alle leggi razziali fasciste del 1938. Quando anche i rampolli della famiglia Benedetti-Kremen saranno catapultati dal loro benessere ovattato direttamente nei forni crematori nazisti. Nelle cornici delle porte i corpi si immobilizzano, fissandosi in sequenze fotografiche, talvolta disposti per file, altre volte compressi come in un vagone blindato diretto verso le camere a gas.
In un finale che li vuole tutti morti, torna Agostino, con l’ignavia che ha contraddistinto la sua esistenza, ad ammettere di essere arrivato a trent’anni cercando solo di organizzarsi «la più elevata e pura vita familiare».