Anno 2 Numero 12 Del 30 - 3 - 2009
Tra un mese «La differenza» chiude
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
La notizia è la seguente. Tra un mese «La differenza» chiude. La ragione è la seguente: nessuna delle istituzioni che ci hanno finanziato fin ora ha deciso di rinnovare il proprio sostegno al nostro progetto.
Se questo fosse un lancio d’agenzia sarebbe tutto qui. Invece siamo un settimanale d’approfondimento e allora ci permettiamo di raccontare anche qualche sfumatura.

Il nome di questa rivista è nato prima ancora di immaginare come sarebbe cominciata. Prima di tutto, prima che ci fosse una rivista, prima che ci fosse una redazione, prima che ci fosse un direttore, c’era la necessità di fare la differenza. Era un sentimento che non apparteneva solo a noi che poi ci siamo riuniti sotto questa parola, era un bisogno sospeso sopra le teste di un’intera generazione. E non è strano che sia così in un paese che non ha più niente. Né identità, né valori, né futuro, né giustizia, né verità. Fare la differenza, allora, voleva dire stare nel contrario del niente, cercare di avere tutto, tutto quello che ci meritavamo.
Essere la differenza in Italia non è ancora una piena dichiarazione d’identità, ma è un primo passo, una presa di distanza da tutto ciò che non siamo.
Non siamo gli italiani di cui parla l’informazione a reti unificate. Non siamo gli italiani che stanno dalla parte di questa classe politica. Non siamo gli italiani che si turano il naso quando devono andare a votare. Non siamo gli italiani che fanno finta di niente quando la propria parte politica mente di fronte alla nazione. Non siamo gli italiani che passano sopra alla costituzione. Non siamo gli italiani che fingono di non cadere mai in contraddizione. Non siamo gli italiani che vogliono stare seduti a farsi raccontare com’è il mondo. Non siamo gli italiani che hanno paura di esporsi. Non siamo gli italiani al 40° posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa. Non siamo gli italiani che si fanno dire qualunquisti quando invece hanno il coraggio di essere critici. Non siamo gli italiani a cui bastano le stelle filanti per credere che sia festa. Non siamo gli italiani disposti a credere che la bellezza sia qualcosa che calma i sensi  invece di moltiplicarli, di renderli taglienti. Non siamo gli italiani disposti a campare alle spalle delle vittime designate. Non siamo gli italiani che si fanno ridere in faccia da tutta l’Europa. Non siamo gli italiani che dimenticano. Non siamo gli italiani che hanno smesso di credere nelle proprie forze. Non siamo gli italiani che hanno paura di essere messi in minoranza perché si ricordano dei loro padri antifascisti che hanno passato decenni in carcere per non rinunciare alla loro integrità. Non siamo gli italiani che ragionano grossolanamente e fanno errori grossolani. Non siamo gli italiani che mentono. Non siamo gli italiani che vogliono portare a casa la giornata e chiudersi la porta alle spalle. Non siamo gli italiani disposti a chiudere un occhio. Non siamo gli italiani che si fanno imbonire da una maschera. Non siamo gli italiani delle soluzioni facili. Però siamo gli italiani disposti a ricostruire col loro lavoro questo paese sulla base di tutte queste negazioni.

Da qui siamo partiti un anno e mezzo fa. Abbiamo deciso di pubblicare un settimanale di critica alla società attraverso la cultura e l’arte, due sguardi acuminati come lame, capaci di spingersi assai più in profondità di quanto non possa la cronaca. Ogni settimana abbiamo preso un tema dell’attualità sociopolitica e lo abbiamo squadernato attraverso il lavoro di teatranti, scrittori, registi, artisti visivi, autori di finestre attraverso cui guardare la realtà senza filtro. Siamo stati sempre sul pezzo, anticipando i grandi temi che poi sarebbero esplosi di lì a pochi giorni. Abbiamo captato i terremoti usando strumenti non convenzionali, interpretando i segni di quegli strani sciamani che sono gli artisti. Abbiamo cercato sempre e comunque di affrontare i problemi prendendoli dalle cause e in questo (ciò che è scritto ci è testimone) possiamo veramente dire con orgoglio che abbiamo fatto la differenza.
In questo anno e mezzo abbiamo provato a far capire ai nostri lettori a cosa serva la cultura. In un paese che si divide fra chi crede che non serva a niente e chi per farne una bandiera l’ha svilita a spot pubblicitario è stata certamente una scommessa provare a dire che essa serve a capire meglio noi stessi come società.

Un anno e mezzo fa usciva il primo numero de «La differenza», un progetto nato da una idea del suo direttore e poi sposato e sviluppato assieme allo staff di Vincenzo Vita, ex assessore alla cultura della Provincia di Roma. Un parto difficile, come tutti, fatto di tensioni, di difficoltà, un parto pluri-gemellare a dire il vero. Si sceglieva allora, per la prima volta, di aiutare il mondo della scena indipendente (leggi contemporanea) in modo strutturale. Attraverso uno strumento legislativo, ossia il Patto Stato-Regioni, gli enti territoriali potevano uscire dalle logiche del finanziamento incondizionato alle solite grandi realtà (enti lirici, teatri stabili, etc…) e destinare un budget alle nuove forme artistiche, quelle meno strutturate, ma maggiormente rispondenti alle forme e al carattere della società attuale.
Alla fine del suo mandato, in una lunga intervista concessa a questa rivista, Vincenzo Vita si augurava di poter arrivare in un prossimo futuro a mettere su uno stesso piano (quello qualitativo) la scena indipendente e quella dei dinosauri istituzionalizzati per poi poter arrivare ad indirizzare i finanziamenti in base al valore dei progetti. Per questo motivo nasceva il contenitore «Scenari Indipendenti», costola romana del più ampio «Teatri nella Rete», il progetto triennale attraverso cui la Regione Lazio si poneva simili obiettivi. L’intera galassia di interventi realizzati e coi quali si consacrava definitivamente il cosiddetto “Rinascimento romano” finì sotto questi nomi. Ma non era un punto d’arrivo. Tutto doveva ancora cominciare.

Il nostro progetto venne finanziato in quell’ambito perché rispondente ad una precisa strategia politica. Una risposta “di sostanza” al vanesio veltronismo dei “grandi eventi” mordi e fuggi. Il progetto «Scenari Indipendenti» era concepito per restare. Per non svanire di colpo. Per costruire un tessuto a diversi livelli. L’idea de «La differenza» e del portale «Scenarindipendenti.it» passò perché poteva servire a mantenere costantemente aperto il dibattito culturale, prima che i sipari si alzassero o anche dopo che si fossero abbassati. Da allora abbiamo avuto un unico grande obiettivo, far incontrare le persone e l’arte, mandare la gente a teatro, alle mostre, al cinema, nelle librerie o nelle biblioteche. Bisognava farlo perché era in quei luoghi che da sempre si costruiscono le armi per opporsi al degrado umano (che oggi in Italia sta raggiungendo livelli di emergenza da codice rosso). Per riuscirci però bisognava ricostruire ponti crollati da decenni. Bisognava far capire ai lettori che per decodificare il presente e risalire alle cause dei loro problemi di tutti i giorni bisognava rivolgersi ad uno sguardo più profondo, lo sguardo degli artisti.
Da allora abbiamo spiegato con Cechov il perché in Italia esiste c’è un «problema casa», con Calvino perché a Napoli si è sviluppata l’emergenza spazzatura, con Tadeusz Borowski e poi con Pippo Delbono perché si continua a morire di lavoro, con Shakespeare e con Gaetano Ventriglia cosa vuol dire “eutanasia”. Ogni settimana abbiamo preso il tema di più stretta attualità e lo abbiamo analizzato criticamente arrivando alla radice, inchiodando a terra le questioni che il resto dei giornali (da cui le pagine culturali, non a caso, stanno progressivamente scomparendo) lasciava fluttuare come ronzii passeggeri.

In un anno e mezzo di lavoro abbiamo raggiunto quota mille e cinquecento lettori per ogni numero con un indice di crescita costante. Ogni mese guadagnamo cento lettori a settimana. Ogni settimana col nostro pubblico potremmo riempirci il Teatro Argentina e il Teatro Valle insieme per una serata. E probabilmente sarebbe una bella serata. In un anno e mezzo di lavoro siamo diventati la coscienza critica della scena indipendente italiana. Abbiamo fatto dialogare per la prima volta mondi e discipline artistiche che storicamente non comunicavano fra loro. Abbiamo collocato decine di artisti randagi e misconosciuti, il sangue migliore della scena contemporanea, in un panorama riconoscibile e strutturato. Abbiamo voluto una rivista on-line perché fosse gratuita e di massima accessibilità come ogni servizio primario dovrebbe essere. Abbiamo fatto «formazione del pubblico» più di chiunque altro. Abbiamo dato al lettore gli indirizzi di posti in cui non sarebbero mai finiti da soli, e per farli entrare gli abbiamo fornito le chiavi di lettura.

Questo è un numero bianco. Il primo numero di aprile. Alla fine di questo mese il finanziamento di questo settimanale sarà terminato. Era ancora autunno quando abbiamo iniziato a cercare le istituzioni per confrontarci sul destino di questa pubblicazione, che essendo legata ai fondi del non rinnovato Patto Stato-Regioni, aveva i giorni contati. Ad oggi non siamo stati ancora ricevuti da quelli che sono stati tecnicamente i nostri due editori, ossia l’assessore alla Cultura della Regione Lazio e quello della Provincia di Roma (quest’ultimo ad onor del vero ci incontrerà martedì, quando tuttavia sarà già tecnicamente impossibile tentare un salvataggio). Non abbiamo avuto la possibilità di discutere con le istituzioni in merito al valore e al senso del servizio che stiamo offrendo al pubblico. Non abbiamo avuto modo neppure di dirgli che non vogliamo chiedergli una elemosina clientelare, ma siamo disposti ad accettare un nuovo finanziamento solo se verrà concepito quale intervento strategico per rafforzare il legame fra cultura e opinione pubblica.

Fino ad oggi, per vie ufficiose ci è stato risposto che «non ci sono soldi». Ma sappiamo quanto essa sia una frase retorica. Siamo giornalisti e sappiamo che i soldi ci sono e sappiamo come vengono impiegati. La frase corretta, allora, sarebbe: «Non vogliamo spendere soldi per un progetto come questo». L’accetteremmo. Sarebbe un onesto rifiuto, un atto di responsabilità politica che la politica è in dovere di dare a noi e ai nostri lettori. 

Nell’attuale silenzio però vogliamo chiedere a chi ci legge, a chi ci segue, di far sentire la propria voce. Vi chiediamo di scrivere due righe, ognuno per suo conto, dicendo perché chiudere oggi «La differenza» sarebbe un errore. Nella homepage di questa rivista c’è un form semplicissimo da compilare. Una volta fatto invierà la vostra riflessione direttamente agli assessori Giulia Rodano (Regione Lazio) e Cecilia D’Elia (Provincia di Roma) che stanno celebrando il nostro funerale senza emettere parola. Vi raccomandiamo solo di farvi un giro nel nostro archivio nel caso vi mancasse l’ispirazione.