Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 2 Numero 13 Del 6 - 4 - 2009 |
Fratelli dei cani |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
«…e gli sale se ne guardi gli occhi, le mani, sugli zigomi un pietoso rossore, in cui nemica gli si scopre l’anima.» Pier Paolo Pasolini Chi vuol sapere cos’è la città sommersa finisce sulla Tuscolana, o sull’Appia, guidato dallo spettro di un Edipo moderno, Pier Paolo Pasolini, così simile nel mito che lo avvolge, alla figura claudicante del suo attore feticcio, Franco Citti, nell’ultima scena, appunto, dell’Edipo Re, dove il vecchio re di Tebe, come una «forza del passato» attraversa le periferie delle città, passa sotto i serbatoi dell’acqua, si riposa sulle scalinate delle chiese. Chi vuol sapere cos’è la città sommersa va cercando il silenzio dei pesci percorrendo a ritroso le arterie che dalla campagna immettono sangue nelle città. Le baraccopoli ci sono ancora. Si sovrascrivono sulle montagnole, all’incrocio fra la Casilina e la Togliatti. Se si percorrono le strade in questa direzione non si sente alcun suono. Col trenino della linea provinciale lanciato come un proiettile al rallentatore si bucano i timpani sollevati dei semafori, andandosi a scaricare ai piedi di un’antichità sepolta a Porta Maggiore, una piazza senza pietà, un non-luogo ombelicale, la cui continua saturazione cancella la forma dei flussi confondendo il movimento con un’immobilità post-catastrofica. Accanto al tempio di Minerva Medica i binari del treno, gli spot pubblicitari che da Termini arrivano a loop in serie di tre, ipnotici, amniotici e la vibrazione dei passi sull’asfalto. Silenzio. Leggo e rileggo Pasolini senza sapere fino in fondo cosa sto cercando. E’ come una lunga equazione in cui qualcosa non torna. Scorro i testi come un cieco passa le dita sul braille immaginando la forma delle cose e sbatto il naso contro le immagini del presente che non ho richiamato. Vengono, portate dalle parole del poeta. Ed è questo che non torna. Quarant’anni fa le stesse immagini di oggi, gli stessi volti nella mondezza, le stesse mani inquiete di uomini «miseri e scuri come cani». I nomi delle vie, Isacco Newton (fisico), Giorgio De Chirico (pittore), non sembrano diversi dalla via Lillo Strappalenzola (scappato a 12 anni) o via Benito La Lacrima (disoccupato) che mettevano asfalto sotto i piedi dei due vagabondi di Uccellacci Uccellini. Ma non c’è neppure bisogno che la metafora si faccia iperbolica, è la Roma di Accattone la città di accattoni che resta a galleggiare nel silenzio mondiale ripetuto in serie di tre. La stazione Termini, resta un porto per l’al di là. Lungo le banchine e le vie che la inforcano si può partire verso la terra al di sotto del mare, adesso come allora, quarant’anni fa, ancora abitata dalle stesse facce, gli stessi occhi sovrimpressi ad altri, le stesse solitudini a strozzo. Torno su Pasolini, e ci ritorno ancora. Le pagine sembrano sfogliarsi come accade con la carta vecchia, da una ne vengono due. Due immagini di città, due codici che coincidono. Vado in cerca della città sommersa. Finisco sulla Tuscolana, o sull’Appia. Solo, «come un cane senza padrone». Fino a notte. Fino alle cinque di mattina, quando da dentro le macchine accatastate degli sfasciacarrozze escono uomini che al buio non riesco a identificare. Sono sagome di fratelli «miseri e scuri come cani». Li vedo nell’aria tremula e pungente dell’alba e trovo il valore all’incognita di quella lunga equazione pasoliniana che, risolta fino in fondo, si dimostra una identità. x = x Le baraccopoli uguali alle baraccopoli, i treni del mattino uguali ai treni del mattino, le sagome uguali alle sagome, le stazioni alle stazioni. Sono le stesse, sempre le stesse. Quella di cui Pasolini parla nei suoi scritti di quarant’anni fa non è una generazione, ma una categoria antropologica quella di un sottoproletariato che non cambia faccia. Cambia nazionalità forse. Ma ripete gli stessi gesti. Le tute sgargianti dei rumeni di oggi, sono i vestiti attillati dei ragazzi di borgata di quarant’anni fa. E così gli stessi sfottò, gli stessi sogni sterili, le stesse paure, la stessa ferocia verso sé stessi. La città sommersa è l’ombra della città emersa. E’ una periferia antropologica, una periferia abitata da una razza bastarda che esisterà sempre, perché per quanto possa cambiare suono ai nomi, essa si genera dall’unione degli uomini con la terra a cui appartengono, il margine che li ospita, che li figlia, sempre uguali, «disgraziati e forti, fratelli dei cani». |