Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 2 Numero 13 Del 6 - 4 - 2009 |
L’avvistamento di un continente |
Una conversazione con Umberto Croppi |
Gian Maria Tosatti |
Già all’indomani della salita in Campidoglio da parte dell’attuale amministrazione capitolina furono in molti a pensare che il quinquennio che aveva definitivamente fatto emergere i centri culturali indipendenti (o centri sociali di seconda generazione) vedesse di fronte a sé il segnale di «strada interrotta». Dopo un anno di prove tecniche di trasmissione il pensiero del Comune di Roma ha iniziato a manifestarsi attraverso una serie di segnali spesso in contrasto fra loro. Da una parte l’istruzione di un processo di ristrutturazione e trasferimento di Esc in una sede definitiva, dall’altra l’apposizione dei sigilli al Rialto Santambrogio seguita una posizione ambigua sui propositi di ricollocazione già sanciti da una delibera del 2004 e da uno stanziamento di fondi. Nel mezzo una mediazione assai difficoltosa con l’Horus. Per capire le linee politiche da cui dipende tutto questo abbiamo incontrato l’Assessore alla Cultura Umberto Croppi. Qual è la sua idea rispetto agli spazi indipendenti a Roma? Per qualificarsi indipendenti c’è bisogno di esistere sulla scia di un bisogno che si esprime ad onta di tutto, e che non aspetta di esistere in quanto qualcuno gli dia una sede o dei finanziamenti. Renato Nicolini ricorda, a volte, che la grande stagione creativa di Roma è esistita quando non esisteva nessuna forma di assistenza pubblica. Poi dice che nel momento in cui è iniziata una burocratizzazione del sistema e il comune ha erogato fondi quel sistema si è decimato. Vedo che andiamo subito al dunque. Lei oggi eredita, appunto, un sistema di spazi culturali indipendenti che nei fatti ha una autonomia economica totale rispetto alle forme di finanziamento. E’ una economia che passa attraverso una serie di attività, come ad esempio la gestione di bar o attività simili. Qualche giorno fa però queste attività che fanno parte degli strumenti che consentono a tali strutture di rimanere indipendenti (producendo cultura a costo zero), sono costate al Rialto una azione da parte della questura. Molti non hanno capito bene il quadro in cui collocare tale strappo. Vuole aiutarci ad interpretarlo? Ricostruiamo la storia. Molti immaginano che quando parliamo del Rialto si stia parlando di un centro sociale occupato. All’inizio, a dire il vero c’è stata una storia di occupazione nella sede precedente. La scorsa amministrazione poi trattò un trasferimento all’interno di uno stabile del comune che portò ad una assegnazione legittima. Questa presenza che era giustificata dall’attività culturale ha comportato poi un’attività di discoteca con pagamento del biglietto d’ingresso e di somministrazione (di alcolici. Ndr). Tra l’altro nel quartiere si è sviluppata una certa opposizione a tali attività attraverso raccolte di firme per il disturbo notturno o iniziative simili. Io su questo non esprimo un giudizio, sto solo registrando cosa è successo. A questo quadro si aggiungono realtà che vanno lette su uno sfondo politico più ampio. C’è la comunità ebraica che fa rimostranze, ci sono state interrogazioni parlamentari. Sul Rialto c’era una ordinanza della questura già pendente dai tempi dell’amministrazione precedente riguardante certe attività illegittime dal punto di vista amministrativo. Ad un certo punto, senza che io ne sapessi nulla - era stata allertata l’amministrazione nei suoi organi amministrativi e non politici - la polizia è intervenuta in ottemperanza ad una decisione della magistratura per interrompere non l’attività del Rialto né per sgomberarlo, ma per interrompere le attività commerciali non autorizzate. Questo è successo. Ora è chiaro che in tutte queste vicende ci sono diversi aspetti. Da una parte c’è la necessità di un atteggiamento politico che tenda a mediare per non creare momenti di tensione - in questo senso l’intervento è stato intempestivo e si sarebbe potuta gestire meglio la cosa. Ma poi c’è un altro aspetto che attiene alla legittimità ossia il perché alcuni debbano avere delle zone franche garantite mentre altri sono costretti alla rigida osservanza delle regole. Semplificando, “perché quello che ha il bar a ventri metri deve osservare tutte le norme di sicurezza, d’igiene, avere le licenze, pagarci le tasse…” Sì, ma c’è una differenza sostanziale che sta nel fatto che gli altri gestori di attività commerciali hanno nel commercio il loro fine, mentre nei centri sociali il commercio è il mezzo per reinvestire fondi nell’attività culturale. Per certi versi la cosa potrebbe essere assimilabile al concetto di defiscalizzazione sugli investimenti in cultura. E’ vero, ma questi aspetti sono normati perché le leggi e i regolamenti attuativi sulle attività di spettacolo prevedono delle deroghe nel regime di autorizzazione alla somministrazione rispetto ai piani del commercio, per cui si può autorizzare attività di somministrazione proprio a supporto di attività culturali. Però questo deve avvenire in un sistema di regole riconosciute. Poi bisogna rispettare alcune norme di sicurezza nei locali in cui si svolgono attività. E sulle norme di sicurezza, come ad esempio le portanze dei solai, dei tetti, le uscite di sicurezza, non si può derogare. Su questo siamo d’accordo. Ma sa anche che in questo senso la responsabilità ricade principalmente sulle modalità con cui le amministrazioni assegnano gli stabili. Il Comune non si può trovare a giocare due parti allo stesso tavolo e assegnare da una parte uno spazio non a norma e poi battersi per chiuderlo proprio perché non è a norma. Tuttavia, per quanto riguarda il tema delle deroghe credo che abbiamo toccato un tema importante, perché quello che è successo al Rialto ha scoperchiato una vicenda annosa ereditata dall’amministrazione precedente e cioè la riscrittura della delibera 26 (quella usata per l’assegnazione degli spazi ai centri sociali. Ndr), che non prevede – da testo - la possibilità della somministrazione. Durante l’«era Veltroniana» ci fu una richiesta reiterata di concertazione per la riscrittura della delibera che inserisse alcuni aspetti importanti come quello di cui stiamo parlando, regolamentando con chiarezza e regolarizzando l’intero sistema in un quadro normativo condiviso e funzionale. Tale richiesta non fu mai effettivamente accolta ed oggi il sistema ha dimostrato di trovarsi in uno stato di vulnerabilità sotto certi profili legislativi. Oggi oltre al Rialto che ha dei problemi ci sono altri centri che stanno per essere ricollocati, come ad esempio Esc. Il rischio è che il giorno dell’inaugurazione arrivino i poliziotti e facciano chiudere tutto perché all’interno si stanno consumando prosecco e patatine. Quello che mi domando è: voi siete intenzionati a dare vita a tale processo nell’unico modo possibile, ossia quello che preveda una concertazione? Posso dire quello che ho intenzione di fare io, perché un’amministrazione è una maggioranza politica ed è dunque una macchina complessa in cui bisogna tener presenti diversi aspetti. Anche qui c’è il rischio di non comprendere il problema, perché molti di noi si avvicinano in termini di governo per la prima volta a questa situazione e quindi bisogna affinare gli strumenti culturali per capire a cosa siamo di fronte. Non possiamo permetterci di avere un atteggiamento che si fermi alla norma pura e semplice. Io non riesco ad usare, come, di contro, molti altri colleghi, due atteggiamenti diversi a seconda che sia in pubblico o in privato. E’ noto che io abbia frequentazioni politiche bipartisan e che abbia avuto con entrambe rapporti e responsabilità. Posso dire dunque che al di là degli atteggiamenti pubblici, la vecchia amministrazione viveva i centri di cultura indipendente come un problema col quale ogni tanto ci si doveva imbattere. Molte delle decisioni prese, compresa la delibera 26, le assegnazioni provvisorie, le promesse di assegnazione definitiva sono delle pratiche dilatorie. I problemi sono stati affrontati solo quando si è stati veramente costretti, altrimenti si è preso tempo, dando qualcosa ogni tanto non volendo affrontare un ragionamento strutturale, e confidando nel fatto che in Italia si lasciano passare gli anni, tanto poi cambiano le amministrazioni e i “problemi” si scaricano su qualcun altro. Oltre a questo aspetto, bisogna ammettere che i centri sociali che hanno una appartenenza ideologica dichiaratamente «di sinistra» – per quanto capaci di esprimere una qualità culturale superiore, non lo nascondo - hanno avuto, proprio per la loro appartenenza politica, la possibilità di una interlocuzione privilegiata. Dall’altra parte, però ci sono gruppi, associazioni, che nella città si muovono spesso sotto traccia, in silenzio, e che hanno cercato un dialogo senza ricorrere a forme di illegalità. Anche loro hanno sviluppato progetti di qualità, magari in zone degradate, e che meritano attenzione. E tuttavia si sono trovati a combattere e spesso a desistere di fronte a mille difficoltà burocratiche che le “occupazioni” non hanno avuto. E’ chiaro allora che se oggi si vuole mettere mano alla materia bisogna riformarla nel suo complesso. Sì, però bisogna precisare che l’occupazione non è una scorciatoia contro la burocrazia, ma una extrema ratio quando le cose non funzionano. Le tremila domande di assegnazione inevase dall’amministrazione precedente hanno generato in alcune circostanze dei fenomeni di occupazione come atto politico concreto per denunciare una immobilità sul piano amministrativo e per dare sfogo a quella «necessità di esistere sulla scia di un bisogno che si esprime ad onta di tutto, [e] che non aspetta di esistere in quanto qualcuno gli dia una sede o dei finanziamenti» cui lei faceva riferimento proprio all’inizio della nostra conversazione. Comunque, a prescindere dalla volontà di riformare tutto il sistema degli accessi alla legittimazione, voi vi trovate con un sistema ereditato di realtà già esistenti, alcune già legittimate e inquadrate in un sistema normativo vigente per quanto fragile. Ora, quello che le domando è se c’è la volontà di riconoscere gli strumenti anche economici su cui tali realtà si reggono e dunque di inserirli legittimamente in un quadro legislativo che possa garantire a questi spazi una condizione di sopravvivenza. Glielo chiedo anche in vitù del fatto che tali strutture hanno fin ora affiancato l’amministrazione nell’obiettivo di coprire un diffuso fabbisogno culturale ad alta accessibilità che le istituzioni, in una metropoli come Roma, da sole non potevano coprire e a maggior ragione non potranno farlo oggi che la crisi impone tagli generalizzati ad ogni settore del pubblico, con particolare gravità per ciò che riguarda la cultura. Io personalmente mi impegnerò per farlo. E’ chiaro che bisognerà mediare fra istanze diverse. E’ chiaro che in questa maggioranza politica c’è chi ha dei pregiudizi nei confronti del complesso di queste iniziative. C’è chi ha una idea diversa della cultura. Io comprendo tutte queste posizioni e voglio affrontarle senza nessuna ipocrisia. So che una città come Roma ha bisogno di luoghi e situazioni che diano spazio a bisogni differenti. E’ necessario capire come farli convivere. E’ ovvio che la riscrittura di un quadro normativo in questo senso dovrà coinvolgere tutti i diversi attori in un processo che per svilupparsi ed ottenere risultati reali deve necessariamente essere partecipato. Leggo da un’intervista di Alemanno rilasciata un anno fa a Radio 24. Il neo-sindaco dichiarava riguardo ai centri sociali: «non penso che tutti debbano essere chiusi, ma devono essere messi di fronte ad una scelta chiara. Se stanno nella legalità, rispettano le altre opinioni politiche possono tranquillamente esistere. Quelli che violano la legge devono essere chiusi». Qualcuno può pensare che l’uso strumentale di certe leggi (vedi appunto il caso del Rialto) possa essere una leva tecnica per chiudere questi spazi senza l’assunzione di una responsabilità politica, lei che ne dice? Guardi, la politica secondo me è uno strumento di mediazione e come tale intendo usarla. Prendiamo l’esempio dell’Horus. Là c’è un problema di legalità che riguarda il fatto che lo stabile è privato ed il proprietario ne richiede legittimamente il possesso. In questo caso la politica non si può esprimere imponendo al proprietario di privarsi del possesso. Ma si esprime attraverso un tentativo di mediazione che può comportare proposte come sta succedendo. Poi un primo livello di confronto può proporre delle soluzioni che possono non essere accolte da una delle parti e dunque ci si trova a dover costruire un altro livello di mediazione che passa per la considerazione di ricollocare l’attività degli occupanti in altri spazi. La politica fa i tentativi. Non c’è la volontà di utilizzare lo strumento tecnico per chiudere queste esperienze. Piuttosto si usano gli strumenti a disposizione per tentare di risolvere i problemi fin dove è possibile. Ma la politica si sta impegnando in questi tentativi perché riconosce la validità delle esperienze di cui stiamo parlando? Io riconosco a questo fenomeno la risposta ad una domanda. E’ stata una risposta che ha avuto picchi di qualità e margini d’intolleranza… Io la definirei più correttamente “criticità”… Va bene. Diciamo che riconosco che questo fenomeno è la risposta ad una necessità largamente diffusa. Ma bisogna riconoscere anche per quanto massiccio esso sia e per quanto forte sia la domanda che lo motiva esso è comunque totalmente estraneo a tutta un’altra parte della città che non lo capisce, non lo vive come un elemento positivo e con cui non riesce ad interloquire. Tanto è vero che si creano spesso degli anticorpi nei territori in cui queste esperienze trovano spazio. Appunto. E bisogna dire che la politica non sempre ha aiutato a costruire un piano del dialogo fra le strutture indipendenti e quei cittadini che nel proprio quartiere non le percepiscono positivamente. Anzi, talvolta ha contribuito ad allargare le divisioni. Lei intende impegnarsi per avvicinare questi due mondi? Io quest’attività di mediazione la condurrò ad oltranza ad onta anche di atteggiamenti da parte dei collettivi, che a volte sono pregiudiziali, fastidiosi ed incomprensibili. Mi pare che in proposito la maggioranza che sostiene questa amministrazione abbia espresso per bocca di Mollicone posizioni diverse dalle sue. Vede, c’è una differenza sostanziale. Io finché non vengo smentito dal sindaco e dalla giunta sono l’assessore e parlo a nome dell’amministrazione. Mollicone, invece, è un consigliere comunale che, per quanto autorevole, esprime un giudizio politico. E’ vero, ma Mollicone è anche presidente della commissione cultura del Comune di Roma e riguardo ai centri sociali ha dichiarato che un conto è andare ad occupare in periferia per riqualificare i quartieri e un conto è occupare nel centro storico. Anche lei crede che il centro storico sia immune dal degrado culturale? Io vedo che il centro storico sta diventando un enorme fast-food. Gli indicatori del degrado culturale non mancano quindi e sono abbastanza evidenti. La questione però è un altro. Nessuno a Roma si è posto il problema di cosa sia una città. Quando Fassino si lamentava che sotto casa sua, a piazza delle Coppelle, c’era rumore dopo mezzanotte io avrei voluto davvero porre il problema. Le città che oggi sono vivibili e sono anche cantieri di percorsi culturali, sono quelle che restano aperte 24 ore su 24, pensiamo a Barcellona. Fassino è in una condizione sociale che se vuole stare tranquillo può permettersi una casa a Formello. Ma per essere più chiari voglio dirle che la mattina in cui è successa la cosa del Rialto ho ricevuto due telefonate da due mie amiche della stessa classe sociale, della stessa appartenenza poltica (di destra), le quali mi hanno esposto due visioni opposte. Una protestava perché erano stati messi i sigilli in un luogo che apprezzava, l’altra ci chiedeva di proseguire e chiuderlo del tutto. Ciò dimostra che bisogna trovare una risposta alla domanda su cosa sia una città e una volta trovata bisogna iniziare a lavorare. In questo senso io non credo che ci sia differenza tra periferia e centro storico. C’è bisogno di modificare le regole della vita in una città. Magari capendo la vocazione delle diverse zone. Chi alle 4 di mattina vuole divertirsi o vuole lavorare deve avere la possibilità di farlo e noi, se vogliamo amministrare una metropoli contemporanea, dobbiamo metterlo nelle condizioni di poterlo fare. |